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La servitizzazione è operativamente fattibile?

Martedì 30 Luglio 2024

Alessandro Giuliani

Noleggiare i prodotti anziché venderli è operativamente fattibile per ogni tipo di prodotto? La cosiddetta servitizzazione, anche detta PaaS (“product as a service”), è stata presentata da alcune fondazioni vicine alle grandi corporation come la chiave di volta dell’economia circolare; la tesi è che noleggiando i beni invece che vendendoli, le imprese saranno interessate a prolungare il più possibile la vita dei prodotti, e pertanto li renderanno più durevoli e favoriranno il riuso e la riparazione. Ma lo studio Product-as-a-service in the circular economy, pubblicato da Cradlenet e Stena Recycling nel 2022, identifica barriere operative, economiche e finanziarie non facilissime da superare. Quelli che seguono sono i miei commenti relativi a queste barriere.

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La prima barriera operativo-economica della servitizzazione è l’incremento dei costi di produzione, un incremento che non può essere coperto puntando su ricavi di breve termine. Difatti, produrre un bene più durevole, costituito da materiali di migliore qualità e disegnato per sostenere interventi di manutenzione, ha un costo maggiore rispetto a un bene di scarsa qualità e con poca aspettativa di vita. Con la logica della servitizzazione le imprese da un lato hanno l’interesse a far vivere il più possibile il prodotto affrontando maggiori costi, ma dall’altro non hanno la possibilità di applicare prezzi proporzionali immediatamente riscuotibili; il pagamento avviene poco a poco, ponendo il conto economico dei produttori in iniziale perdita, e generando pareggio e utili solo sul medio o lungo termine. Il rischio finanziario di questo approccio è alto di per sé, e arriva alle stelle nella fase di lancio del modello (che ha bisogno di ingenti investimenti che possono essere recuperati solo in tempi molto lenti). Basandosi sui parametri economico-finanziari ordinari, è difficile che le imprese e le banche che le finanziano possano puntare sulla servitizzazione. Va anche considerato che a detenere fisicamente l’oggetto dal quale si intende ricavare valore è un consumatore che potrebbe sparire, rendersi irrintracciabile, essere insolvente o porre reclami e questioni legali di ogni tipo in merito alla gestione del prodotto. Questi rischi vanno inclusi nella valutazione globale dei costi e diminuiscono ulteriormente la competitività del PaaS rispetto a un prodotto normalmente venduto.

Un’altra barriera è la complessità logistica delle reiterate restituzioni e riconsegne del prodotto legate agli interventi di sostituzione e manutenzione. E’ difficile prevedere quante volte, nell’arco della propria vita utile, un oggetto avrà bisogno di questi interventi, e pianificarne la durata media è altrettanto difficile; la durata degli interventi ha un’importanza critica, perché l’oggetto servitizzato produce valore solo quando è in uso, ma non durante le fasi di trasporto, stoccaggio ed eventuale manutenzione.




Con la servitizzazione a schizzare in alto sono anche i costi delle aree commerciali, di marketing e di relazione del cliente, che nel quadro di un’unico contratto con il consumatore, potrebbero trovarsi a dover affrontare numerose interazioni.

Va poi preso atto che riparazione e refurbishing sono operazioni labour intensive, che nei paesi a reddito alto, dove la manodopera costa tanto, rischiano di avere un costo non sostenibile; così come accade in ogni ambito produttivo, la tendenza naturale è delocalizzare le operazioni labour intensive in paesi dove il lavoro costa meno. Ma in un’ottica di servitizzazione, se in queste aree geografiche non esiste mercato finale per i prodotti trattati, il prolungamento della loro vita implica un ritorno nelle aree geografiche dove questo mercato esiste, con tutti i tempi e costi annessi; per i beni più costosi, come ad esempio i grandi elettrodomestici (frigoriferi, lavatrici, ecc..), è in una certa misura sostenibile la riparazione decentralizzata mediante i centri di assistenza, ma per altri oggetti e materiali l’unica chance di essere riparati si trova nella dimensione di scala di grandi impianti, che di sicuro non possono trovarsi in prossimità di ogni consumatore. Nella logica tradizionale di mercato, la logistica e fattibilità della riparazione ha meno problemi che negli scenari PaaS; difatti ogni consumatore può far capo ai centri di assistenza locali nel quadro della garanzia del prodotto, oppure rivolgersi ai riparatori artigiani del proprio territorio quando il loro prezzo è compatibile con il valore del prodotto; quando il prezzo di una riparazione locale non è compatibile con il valore del prodotto, esistono, e possono essere incrementati, i flussi post-consumo destinati a canali di seconda mano di paesi a reddito più basso, dove fare la riparazione è economicamente più sostenibile; queste filiere già esistono e non hanno problemi economici strutturali, si tratta solo di formalizzarle e portarle a standard di qualità accettabili. Si può sovvertire questa dinamica di mercato in nome dell’ideale “chilometri zero” o della giustizia economica globale? Chissà, forse sì, ma stiamo parlando di processi storici per i quali è difficile pensare che la servitizzazione sia un motore. Finché il contesto storico è questo, il massimo riutilizzo e risultato ambientale si ottiene dando ai settori dell’economia circolare le stesse chance economico-produttive e di mercato di qualsiasi altra filiera internazionale.

La gestione dei modelli PaaS richiede la messa in campo di importanti asset industriali, relativi sopratutto agli stoccaggi e alle catene di produzione della manutenzione. Ciò richiede forti investimenti che, come abbiamo sottolineato all’inizio, potrebbero avere tempi di recupero molto lenti. Secondo gli autori dello studio Product-as-a-service in the circular economy parte della soluzione potrebbe essere il ricorso a reti d’impresa flessibili, dove molti player mettano i loro asset a servizio delle case produttrici. Ma rimane comunque il problema della scarsa liquidità del sistema che, unito alla forte sperimentalità del modello, rende molto difficile l’accesso ai finanziamenti delle banche.




Queste barriere operative e finanziarie, unite alla “recalcitranza” dei consumatori (di cui ho parlato esaurientemente in un altro articolo), riducono sensibilmente le possibilità di successo della servitizzazione. Gli autori dello studio che ho citato sono convinti che si tratta solo di tempo, perché poco a poco il mercato e il sistema finanziario si adatteranno al nuovo scenario e molti dei nodi esistenti, tipici delle filiere incipienti e poco mature, andranno sciogliendosi naturalmente. Nello studio il dogma di base non viene mai messo in discussione: “la servitizzazione è il futuro”.

Come imprenditore che ha sempre puntato sull’innovazione, tendo sempre, quasi istintivamente, a considerare il futuro come qualcosa di aperto e pieno di opportunità. Ma sono allo stesso tempo scettico di fronte ai “determinismi storici”, soprattutto quando vengono annunciati in modo messianico. Il ragionamento sulla servitizzazione offre spunti interessantissimi, che per poter essere sviluppati con successo hanno bisogno di analisi molto più ampie e profonde di quelle che sono state fatte finora, e che si fondino su un’opportuna domanda di partenza: la servitizzazione, così come viene presentata da chi la promuove, è un’utopia o una distopia? Un modello di accentramento totale della proprietà da parte dei brand, che implicazioni ha in termini di giustizia economica e psicologia sociale?

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