Beni culturali ed Economia Circolare: il vulnus inatteso
Il Codice dei Beni Culturali (d.lgs. 42/2004) è compatibile con l'Economia Circolare e il Riutilizzo? Tale domanda potrebbe sembrare assurda. Ma, alla luce degli aggiornamenti del Codice introdotti negli ultimi anni, trova fondamento in un paradosso legale estremamente concreto. Vediamo il perché.
I beni usati, ossia gli oggetti che vengono reimmessi in circolazione in un'ottica di Riutilizzo, rientrano pienamente nella definizione di beni mobili utilizzata nel Codice dei Beni Culturali. Secondo il Codice, sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli artt. 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. I beni culturali sono assoggettati a disposizioni di tutela tra le quali sono ricomprese anche misure relative alla circolazione dei beni. La verifica dell'interesse culturale è effettuata, d'ufficio o su richiesta dei soggetti cui le cose appartengono, da parte del Ministero della Cultura, della Sovraintendenza locale dei beni culturali piuttosto che dalla Commissione regionale per il patrimonio culturale (organo collegiale a competenza intersettoriale) in base a criteri e procedimenti che variano dipendendo da chi possiede il bene (vengono infatti applicati dei distinguo tra soggetti a fini di lucro o non a fine di lucro e tra enti pubblici e privati).
Ad essere "attenzionabili" in qualità di beni di presunto interesse culturale , oltre a tutte le opere d'arte eseguite più di 70 anni fa, sono anche le fotografie (con relativi negativi e matrici) gli esemplari di opere cinematografiche, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento, di documentazioni di manifestazioni, sonore o verbali, comunque realizzate, la cui produzione risalga ad oltre 25 anni, i mezzi di trasporto aventi più di 75 anni e i beni e strumenti di interesse per la storia della scienza e della tecnica aventi più di 50 anni. Una gamma di oggetti enorme e gestita quotidianamente dalla maggior parte degli operatori dell'usato italiani, sia nei negozi che nei canali di distribuzione fieristici ed ambulanti! Durante la discussione della legge di riforma del Codice, il numismatico Bolaffi, udito dalla Camera dei Deputati, aveva lanciato un segnale d'allarme. In base alle prime versioni della proposta di legge, infatti, si prospettava uno scenario in cui ogni operatore implicato nella compravendita di un bene superiore ai suddetti limiti di età, «senza la prescritta autorizzazione» avrebbe potuto essere punito con reclusione fino a 2 anni più multa fino a 80mila euro! Vendere il libro del nonno, un disco degli anni '80 o un soprammobile vintage, sarebbe diventato illegale senza sostenere un oneroso iter di verifica e come conseguenza sul mercato sarebbero rimaste solo le opere più pregiate, ossia quelle con valore sufficiente a sostenere gli extra costi imposti dalla norma culturale. Uno scenario disastroso per il mercato nazionale del Riutilizzo che fortunatamente è stato scongiurato grazie agli emendamenti proposti da varie forze politiche.
Le criticità però permangono, tutte quante, per il Riutilizzo di esportazione. Secondo il codice attualmente in vigore, infatti, tutti i beni usati che, dipendendo dalla fattispecie, abbiano più di 25, 50, 70 o 75 anni, per poter uscire dal territorio della Repubblica sono soggetti ad autorizzazione di uscita definitiva da parte degli uffici preposti. Un obbligo che può entrare in deroga sotto certe soglie di valore, ma che dipendendo dalle indicazioni ministeriali può essere applicato in forme estremamente restrittive. Nel 2020 l'Associazione Antiquari d'Italia ha chiesto pubblicamente al Ministro della Cultura Dario Franceschini di abrogare due decreti ministeriali che sospendono l'attuazione della soglia di valore e impongono controlli sistematici con convocazione fisica delle opere autocertificate con più 50 e 70 anni; antiquari e collezionisti lamentano non solo il sovraccarico degli Uffici Esportazione e la lentezza degli adempimenti burocratici, ma anche oneri di verifica culturale completamente a carico dell'esportatore che si aggirano attorno ai 600 euro per ogni singolo oggetto. Ciò ovviamente rende sostenibile l'esportazione solo dei beni che superino certe soglie di prezzo.
La criticità più pesante, quindi, riguarda l'esportazione di tutti i beni usati riutilizzabili caratterizzati da valore basso o esiguo. Infatti in termini quantitativi ad oltrepassare i confini del paese sono soprattutto (e saranno sempre di più in virtù degli obiettivi di economia circolare!) i beni usati raccolti come rifiuti urbani nel quadro delle raccolte differenziate. In particolare, il Codice dei Beni Culturali include in tutta evidenza prescrizioni che, se applicate con rigore, manderebbero totalmente in corto circuito il recupero di:
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150.000 tonnellate annue di indumenti usati raccolti come rifiuti tessili e che vengono prevalentemente esportate ai mercati esteri;
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una quantità crescente di elettrodomestici preparati per il riutilizzo nel quadro dei regimi di responsabilità estesa del produttore, che hanno un mercato estremamente ricettivo nei paesi dell'Africa Subsahariana;
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un potenziale di centinaia di migliaia di beni durevoli di ogni tipo (mobili, giocattoli, oggettistica, ecc..) che secondo la normativa ambientale dovrebbero essere preparati per il riutilizzo e che troveranno il loro mercato soprattutto all'estero.
E' infatti impensabile che gli impianti di selezione analizzino i flussi del raccolto con un grado di dettaglio sufficiente ad escludere la presenza di oggetti che superino certe soglie di età, come anche è impensabile che tali oggetti, una volta identificati, seguano iter autorizzativi che hanno un costo di 600 euro ad oggetto. E inoltre, molto spesso, la selezione avviene direttamente all'estero, ossia quando teoricamente è già troppo tardi per eliminare i beni critici dal flusso o chiedere l'autorizzazione per esportarli.
Un vulnus giuridico che potrebbe avere effetti talmente devastanti sullo sviluppo dell'economia circolare, che sono sicuro che verrà risolto dal Ministero della Cultura ancor prima che sia necessario un intervento delle camere legislative. Il rischio, però, è che nel frattempo qualche pubblico ufficiale zelante metta in seria difficoltà più di un operatore del recupero.
Cosa ci può insegnare questo assurdo paradosso?
Per me la lezione è molto chiara. L'economia circolare, nella misura in cui diventa un fenomeno importante (e, speriamo, sempre più dominante!) non può più essere affrontata dal legislatore in ottica esclusivamente settoriale ed ambientale, come se fosse separata da tutto il resto. Da un lato chi pianifica l'economia circolare dovrebbe avere competenze inter-settoriali; dall'altro, chiunque legiferi su un settore, dovrebbe cominciare a tener conto anche delle implicazioni ambientali.