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Costruire comunità con la manutenzione

Martedì 20 Aprile 2021

Guido Viale, saggista e sociologo

Per gran parte del secolo scorso - da quando il presidente di General Motors, Alfred Sloan, con continue variazioni dei modelli, aveva surclassato Henri Ford, che le auto le voleva tutte uguali e tutte nere - e fino ad ora, il meccanismo di sostegno di vendite, produzione, accumulazione del capitale e profitto è stato l'obsolescenza programmata, cioè la produzione di "beni" destinati a durare sempre meno: o perché si guastano presto, o perché "superati" da qualche innovazione spesso insignificante, o perché "passati di moda" per le loro caratteristiche estetiche. E' un meccanismo che per oltre un secolo ha alimentato "l'economia dello scarto", ovvero una produzione crescente di rifiuti difficili da "smaltire" e impossibili da riciclare, perché l'interesse esclusivo di chi metteva e mette in circolazione i prodotti che li generano è quello di sostituirli al più presto con altri di nuova produzione.

manutenzione

A rendere inefficace il meccanismo dell'obsolescenza programmata possono essere solo la durata del prodotto (cioè la sua robustezza), la sua riparabilità (facilità di smontarlo e di reperire pezzi di ricambio) e la sua aggiornabilità (con nuove componenti per tenere il passo con le innovazioni effettive). Questo approccio, che mira a ridurre gli aspetti più frenetici del consumismo, ha cominciato a trovare una sua applicazione nella legislazione di alcuni Paesi. Per esempio, una legge francese entrata in vigore dal 1° gennaio di quest'anno prescrive, per tutti i prodotti tecnologicamente complessi, una etichetta in cui siano riportati, con un punteggio da 1 a 10, indicazioni verificabili su durata, riparabilità e robustezza. Così, almeno, si sa che cosa si sta comprando.

Tuttavia il "Pacchetto dell'economia circolare" varato dall'Unione europea nel 2018 (e ratificato dall'Italia lo scorso settembre) e, ancor più, il "Piano di Azione europeo sull'economia circolare" (uno dei pilastri del Green Deal europeo), approvato lo scorso febbraio, si basano su un principio differente, che è quello della Responsabilità estesa del produttore, volto ad "assicurare che ai produttori di beni spetti la responsabilità finanziaria, o quella finanziaria e organizzativa, della gestione della fase del ciclo di vita in cui il prodotto diventa un rifiuto, incluse le operazioni di raccolta differenziata, di cernita e di trattamento". "Tale obbligo" aggiunge la direttiva - può [può, non deve] comprendere anche la responsabilità organizzativa di contribuire alla prevenzione dei rifiuti e alla riutilizzabilità e riciclabilità dei prodotti?. E' l'approccio adottato in Italia da CONAI, il consorzio per il recupero degli imballaggi.

Apparentemente durata e riparabilità del prodotto e responsabilità estesa sono approcci complementari, finalizzati entrambi a ridurre la quantità di rifiuti che sta sommergendo il mondo; ma sostanzialmente si tratta di due soluzioni diverse che rischiano di imboccare direzioni opposte.




Il recupero di un bene a fine vita (ma quale fine? E quale vita? E che recupero? Dei soli materiali di pregio, o del prodotto che ancora può funzionare, o di suoi componenti, se non sono ancora veramente morti?) non pregiudica la produzione di beni destinati a durare - o a funzionare - per il più breve tempo possibile, secondo i canoni dell'obsolescenza programmata. Certo farsi carico del loro ritiro e recupero è un onere finanziario e organizzativo pesante, il cui costo può però essere integralmente traslato sul prezzo di vendita; soprattutto se tutti i produttori o i venditori della stessa tipologia di beni, nazionali o di importazione, sono tenuti a farlo.

Viceversa, essere tenuti a garantire durata, riparabilità e aggiornamento del prodotto - per esempio cambiando la scheda madre di un computer o di un cellulare - vuol dire interrompere il vortice della continua produzione di sempre nuove versioni dello stesso marchingegno.

Ma le differenze non finiscono qui. La responsabilità estesa del produttore richiede un coordinamento tra imprese produttrici - in larga parte multinazionali - e imprese impegnate nella raccolta e nel recupero dei relativi scarti, per lo più piccole e spesso "tecnologicamente" arretrate: un coordinamento tanto più forte perché include anche un impegno finanziario. E' ovvio non solo che la "regia" di questo coordinamento spetta alle imprese produttrici o distributrici, ma anche che potrebbe sfociare nell'acquisizione delle imprese che operano sul fine vita dei beni da parte di quelle che li mettono in circolazione: cosa che peraltro renderebbe il controllo pubblico sull'intero ciclo assai problematico. Sappiamo che cosa fa Amazon dei prodotti resi perché deteriorati o perché non piacciono a chi li ha ordinati: non li rimette sugli scaffali; li distrugge anche se sono ancora integri e funzionanti. Al più se ne riciclano alcuni materiali. E' il destino che verosimilmente toccherebbe a tutti i prodotti ritirati dalle imprese produttrici.



Durata e riparabilità del prodotto mettono in evidenza attività tra loro incompatibili: produrre è per lo più un'attività seriale che per prodotti complessi, ma non solo, richiede una grande organizzazione, anche se articolata in impianti diversi. Riparare, recuperare, "cannibalizzare" beni diversi per ricomporne uno nuovo è un'attività artigianale, che richiede competenze, manualità e attenzioni sconosciute alla produzione seriale: ogni prodotto da riparare è diverso dall'altro per tipologia, marca, complessità, anno di fabbricazione, ecc. Si tratta dunque di un'attività tanto più efficace quanto più è lasciata all'iniziativa di imprese piccole o di singoli operatori legati ai territori: là dove si manifestano i guasti e si generano gli scarti. Inglobarla in grandi complessi non avrebbe senso.

Ma non finisce neanche qui. Secondo una prospettiva elaborata fin dal 2015 dalla fondazione McArthur, un brain trust finanziato da molti produttori multinazionali, la chiusura del ciclo di vita di un prodotto all'interno della stessa impresa o dello stesso gruppo potrebbe aprire la strada a un passaggio generalizzato dall'economia del possesso all'economia dell'accesso. Invece di vendere i loro prodotti, per poi ritirarli al momento del loro vero o presunto "fine vita", i produttori o i grandi distributori potrebbero affittarli, per qualche mese o qualche anno, come si fa già ora con le auto in leasing; o per un'intera stagione, come si potrebbe fare con gli abiti pret-à-porter, con i vestiti e i giochi dei bimbi (tutti "a termine"), gli attrezzi sportivi, le apparecchiature elettriche ed elettroniche, il mobilio, ecc. Niente sarebbe più "mio" e tutto sarebbe "loro", delle grandi multinazionali; che magari potrebbero dotare i beni dati in leasing di un chip per monitorare tutta la nostra vita, momento per momento, realizzandone una profilazione completa ed esauriente da rivendersi tra loro per i rispettivi marketing.

Ma la nostra esistenza, il nostro io, le nostre attività si sostanziano da sempre del nostro rapporto con le cose che ci accompagnano nel corso della vita; a cui spesso ci legano rapporti affettivi, o semplici ricordi, o abitudini, senza cui la nostra personalità rischia di dissolversi, aprendo la strada alla eterodirezione da parte del "capitalismo della sorveglianza". Qual è l'alternativa? E' riconoscere la centralità del nostro rapporto con alcune delle "cose" che scandiscono la nostra vita quotidiana; e optare per la loro durata, anche quando questa comprende un passaggio di mano (vendita o cessione; purché a qualcuno che intende ancora usarle): per ragioni non solo economiche e ambientali, ma anche sociali e culturali: la manutenzione dei nostri beni apre la strada alla manutenzione delle nostre relazioni ed entrambe alla costituzione di una comunità, condizione ineludibile perché venga presa in carico anche la manutenzione di un territorio. Ma la manutenzione dei beni detti "durevoli" (che include ovviamente sia la riparazione dei guasti sia un recupero non seriale di componenti e materiali) è possibile solo là dove esiste un solido tessuto di imprese e attività artigianali in grado di farsene carico e capace di condividere con ciascuno di noi la cura dei beni che gli affidiamo perché non siamo in grado, né disponiamo degli strumenti, per curarli e riparali da soli. Quel tessuto è la spina dorsale di una rete di relazioni che si può estendere a molti altri aspetti e bisogni della nostra vita, a partire dalle quali intraprendere il cammino verso un'esistenza improntata alla cura di sé, degli altri, di tutto il vivente, della Casa comune.

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