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Prodotto o servizio, utopia o distopia (1)

Martedì 16 Luglio 2024

Alessandro Giuliani

Questo è il primo di un ciclo di tre articoli, dove il patron di Leotron Alessandro Giuliani riflette sulle barriere che ostacolano la transizione dall’economia del possesso a quella dell’accesso nel settore dei beni durevoli. Alla base di questa riflessione una domanda chiave: la transizione da possesso ad accesso è veramente desiderabile?

servitizzazione

“Product as a Service”, con l’acronimo Paas, o in italiano “Servitizzazione”. Parole che definiscono il noleggio di un prodotto anziché la cessione della sua proprietà, in base a formule leasing o di altro tipo, e comprendendo una gamma di beni molto più ampia di quella a cui siamo abituati. Non solo immobili, automobili e macchinari industriali, ma anche elettrodomestici, mobili, attrezzature sportive, giocattoli e addirittura vestiti. Questa prospettiva è stata lanciata nel 2015 dalla fondazione McArthur, think tank vicino alle grandi corporation, come formula per massimizzare la durevolezza, il riutilizzo e la riparazione dei prodotti. L’ottica è quella dell’economia circolare e della responsabilità dei produttori in merito all’impatto ambientale di ciò che immettono sul mercato. Il ragionamento di base è abbastanza semplice: perché l’industria promuova durevolezza, riuso e riparazione deve adottare uno schema di business che sia totalmente allineato con queste pratiche. Le deve convenire che ciò accada, smettendo di essere portatrice di interessi che vanno in contrasto. In uno schema di business basato sulla cessione della proprietà del prodotto, affermano i fautori del Paas, è conveniente che avvenga una certa rotazione negli acquisti dei beni nuovi, perché se i consumatori si tengono il bene a casa per decenni oppure fanno ricorso all’economia dell’usato cedendo e acquisendo beni di seconda mano, l’industria vende di meno e guadagna di meno. La conseguenza estrema di questo principio di convenienza è il fast fashion, di cui si parla molto, e che ha ormai i suoi equivalenti in ogni settore di mercato; è in base a questo stesso principio che alcune industrie, come ad esempio quelle che producono cellulari, adottano strategie di obsolescenza programmata. Nello scenario Paas, almeno in teoria, accade esattamente il contrario: il brand affida il bene al consumatore ma senza cederne la proprietà, si fa pagare a rate o a consumo, e lo sostituisce su richiesta; i beni restituiti possono essere affidati ad altri consumatori, così come sono o dopo eventuali interventi di riparazione, oppure cannibalizzati o riciclati nel seno della medesima filiera produttiva che li ha creati. Negli ultimi anni il Paas è stato inserito da governi e grossi brand e gruppi industriali nella lista degli “scenari futuri inevitabili”. Nei rapporti e nelle strategie circolari, di emanazione pubblica o privata, l’idea è stata promossa in modo trionfale, come se esistesse una tendenza inarrestabile.




Perché il Paas non si è ancora affermato?

Come tutte le idee impostate “a tavolino”, la logica del Paas è stringente, ma ha problemi di contatto con la realtà. Questo è il primo di un ciclo di tre articoli, che si propongono di esplorare in che misura la riforma Paas coincide o non coincide con la realtà e quali sono gli ostacoli che inibiscono la sua applicazione. E in ogni passaggio di questa riflessione non smetteremo di chiederci: la Paas è realmente desiderabile?

Per strutturare le nostre argomentazioni abbiamo preso spunto da uno studio di Cradlenet e Stena Recycling, pubblicato nel 2022 grazie a un finanziamento dell’Unione Europea. Lo studio è intitolato Product-as-a-service in the circular economy, e afferma che il Paas per imporsi deve affrontare nove problemi (o “sfide”), che possono essere divisi in tre categorie:

  • L’accettazione del consumatore
  • I costi operativi
  • I rischi finanziari.

A queste tre categorie di problema noi ne aggiungiamo una quarta, che scegliamo di definire “potere e giustizia”: ossia gli effetti che avrebbe il Paas sul piano dell’accentramento economico, con tutto quello che ne consegue.

In questo primo articolo affronteremo il tema dell’accettazione del consumatore; nel secondo articolo parleremo di costi operativi e finanziari, e nel terzo ed ultimo articolo parleremo di potere e giustizia.

L’accettazione del consumatore

Secondo lo studio Product-as-a-service in the circular economy quando il Paas interagisce con i consumatori si trova di fronte a tre problemi:

  • Ai consumatori piace possedere gli oggetti;
  • I consumatori sottostimano il costo globale del possesso degli oggetti;
  • I costi di transazione causano degli inconvenienti.

Punto A. Voler possedere un oggetto è un capriccio? Le analisi compiute dai think tank dell’economia circolare, o su prestigiose riviste del settore ambientale come il Journal of Cleaner Production attribuiscono la propensione dei consumatori a voler essere proprietari dei loro oggetti a un “pacchetto” di pulsioni psicologiche di bassa lega: status, immagine e senso di controllo. In poche parole, vanità e smania di potere. Se invece è un grande brand a voler puntare sulla titolarità assoluta dei beni, estendendola anche alla fase di consumo e post-consumo del prodotto, gli stessi atteggiamenti non vengono presentati come pulsioni ma come strategie nobili e/o legittime: da un lato la protezione dell’immagine e dello status del brand, magari evitando che i prodotti siano esposti nell’incontrollabile vetrina di un negozio dell’usato o finiscano in mano a segmenti sociali di “livello più basso” di quello programmato dalle aree marketing, e dall’altro lato la gestione in house dell’intero ciclo di vita del bene ai fini della circolarità. Considerato che sia il consumatore che il capitano d’industria sono persone in carne ed ossa, con i loro apparati psicologici e le loro pulsioni di vanità e di potere, sarebbe più adeguato analizzare a tutto tondo la maniera in cui questi impulsi diventano scelte di consumo o strategia industriale. Non vanno poi sottovalutati gli aspetti culturali, ossia la maniera in cui la proprietà degli oggetti contribuisce al nostro sistema di concetti, simboli, valori, identità e credenze; quello culturale è un ingranaggio delicato, grazie al quale la società riesce a funzionare e gli individui riescono a interagire tra loro mantenendo il loro equilibrio psicologico. Un ingranaggio risultante dall’evoluzione storica e pieno di intersecanze, dove la manomissione di un singolo aspetto rischia di generare conseguenze imprevedibili su molti altri fronti, e dove le cosiddette “resistenze al cambiamento” possono derivare da un’infinità di elementi indiretti ma collegati. Levi Strauss ci insegna che gli oggetti sono un mediatore simbolico tra uomo e cultura. Sono proiezioni simboliche della nostra identità, e ci aiutano a trovare la nostra posizione nel mondo. In epoche ancestrali, in tutto il pianeta, da quando esiste l’homo sapiens, gli oggetti preferiti del defunto venivano posizionati nelle tombe accanto alle salme o sopra di esse, perché accompagnassero le anime nel loro viaggio nell’al di là. Oggi i nostri cari sono sepolti o cremati con il loro miglior vestito. Come sottolineano gli industriali più illuminati del Made in Italy, la durabilità dei beni è anche emotiva.

Sul piano identitario il Paas presenta anche un altro tipo di problema: in un’ottica di riutilizzo, dovendo lo stesso prodotto essere concepito per soddisfare più di un consumatore, i prodotti destinati al Paas tendono a essere più standardizzati e meno rispondenti al gusto individuale; a dirlo sono il Journal of Cleaner Production e gli esperti intervistati da Cradlenet e Stena Recycling. E’ interessante notare come il riutilizzo, quando è gestito dalle microimprese della seconda mano, sortisce l’effetto diametralmente opposto: i prodotti soddisfano a pieno il desiderio di originalità degli individui perché sono tutti pezzi unici, derivanti da varie epoche e da un’incontrollabile pluralità di origini.

Punto B. I consumatori veramente sottostimano il costo globale della ownership degli oggetti?

Anche in questo caso i fautori del Paas tendono a utilizzare una dicotomia, non del tutto corretta, dove le strategie industriali sarebbero per definizione razionali, mentre le scelte dei consumatori sarebbero irrazionali. E’ sicuramente vero che sul lungo termine costa di più acquistare un prodotto dal prezzo basso ma con scarsissima durevolezza, perché questo implica una maggiore frequenza degli acquisti, ma a volte questo tipo di scelte più che dalla mancanza di riflessione dipendono dalla scarsa liquidità delle famiglie; inoltre, il prezzo basso può combaciare con la durevolezza quando si diventa proprietari di beni usati di buona qualità, e questa dal punto di vista del consumatore è sicuramente la scelta più smart.

Nel caso di molti beni il Paas implica sicuramente un minore deprezzamento commerciale, perché durante le fasi di consumo il valore commerciale del bene tende a rimanere omogeneo, ma dal punto di vista di un consumatore ciò è rilevante solo in casi specifici (immobili, automobili, ecc..). Infine, occorre prendere atto che esseri proprietari di un oggetto significa doversi sobbarcare in proprio i costi di eventuali riparazioni, cosa che nel Paas non succede, ed è frequente che nei paesi a reddito alto, come l’Italia, il costo della manodopera del riparatore supera il valore commerciale del prodotto con il risultato che spesso il proprietario di un oggetto rotto o non funzionante sceglie di non ripararlo. Ma il quadro normativo può contribuire all’incremento della riparazione senza bisogno di Paas, come dimostra la recente direttiva europea sul “Diritto alla Riparazione”, che punta a rilanciare questa pratica puntando sui meccanismi di garanzia commerciale all’acquisto, sulla disponibilità di pezzi di ricambio e sull’efficienza dei servizi di assistenza.

Punto C. I costi di transazione causano inconvenienti

Gli economisti Dudek e Wiener definiscono il “costo di transazione” come “l’insieme dei costi sostenuti dai soggetti che sono protagonisti di uno scambio allo scopo di definire, iniziare, controllare e completare una transazione”. Non si tratta di costi necessariamente monetari, a volte si tratta solo del tempo e dello sforzo incorporati nell’operazione transativa. I fautori del Paas riconoscono che questo è un suo punto debole, perché ogni singola interazione tra consumatore e offerente del prodotto/servizio implica tempo per il consumatore e costi economici per l’impresa; la possibilità di sostituire il prodotto molte volte, vero punto di forza del Paas, ha questo limite strutturale. Ovviamente anche la cessione e acquisto di beni usati in ottica proprietaria implica dei costi di transazione, ma, come abbiamo argomentato nel libro “La Rivincita dell’Usato” (Edizioni Ambiente, 2022) la pluralità delle opzioni possibili incontra tutti i tipi di esigenza.

Gli autori di Product-as-a-service in the circular economy reputano che in quanto ad accettazione dei consumatori gli ostacoli all’affermazione del Paas possano essere superati mettendo in campo maggiore comunicazione, ossia spiegando per filo e per segno al consumatore perché prendere un prodotto in affitto è economicamente più conveniente che comprarlo, e creando procedure di “co-creazione” del valore perché il consumatore non soffra troppo della massificazione/standardizzazione delle caratteristiche del prodotto. Anche qui il livello di incertezza del risultato è molto alto, perché oltre all’imprevedibilità delle reazioni del consumatore di fronte a questi tentativi, si tratta di aggregare costi economici alla gestione del prodotto. Ma della questione dei costi parleremo nel prossimo articolo.

(segue)

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