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Il Clean Industrial Deal e l’iva sul riutilizzo

Venerdì 24 Ottobre 2025

Articolo apparso a ottobre su Oltreilgreen24, newsletter di approfondimento realizzata da Safe-Hub delle Economie Circolari in collaborazione con il Sole24ore. Si ringrazia Safe-Hub delle Economie Circolari per la gentile concessione.

Lo scorso febbraio la Commissione Europea ha comunicato a Parlamento Europeo, Consiglio Europeo e Comitato delle Regioni un piano strategico denominato Clean Industrial Deal, che, assieme al Circular Economy Act, promette di riconfigurare lo scenario economico comunitario allineando in un’unica visione strategica le riforme ambientali in corso. Il Clean Industrial Deal ha l’obiettivo dichiarato di rafforzare la base industriale europea, e indica priorità e scaletta di marcia in merito a politica energetica, incentivi alla domanda di prodotti “puliti”, investimenti pubblici e privati, economia circolare, mercati globali e partenariati internazionali.

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In questo quadro, la Commissione si ripropone di elaborare misure per incentivare il Riutilizzo, non solo mediante misure di raccolta differenziata ma anche riesaminando le norme sul regime per i beni d'occasione di cui alla direttiva IVA (2006/112/CE), nell'ambito dell'iniziativa "Green VAT" (IVA verde) lanciata con l’obiettivo di affrontare la questione dell'IVA insita nei prodotti di seconda mano. L’iniziativa Green VAT è calendarizzata tra le iniziative faro di circolarità, nel quarto trimestre 2026.

Cosa dice la norma attuale? L’articolo 36 della legge 41/1995, in armonia con le prescrizioni europee, chiarisce che “per il commercio di beni mobili usati, suscettibili di reimpiego nello stato originario o previa riparazione, nonché degli oggetti d'arte, degli oggetti d'antiquariato e da collezione (…) l'imposta relativa alla rivendita è commisurata alla differenza tra il prezzo dovuto dal cessionario del bene e quello relativo all'acquisto, aumentato delle spese di riparazione e di quelle accessorie (…)”.

A partire da questo principio, finalizzato a non applicare l’imposta doppiamente (e ingiustamente) sullo stesso valore aggiunto, è possibile calcolare l’imposta con metodo globale, sommando entrate e costi complessivi, oppure con formule forfettarie che cambiano dipendendo dalla categoria del bene usato e dal tipo di operatore.

Su questo argomento, la redazione di SAFE ha intervistato il patron di Leotron Alessandro Giuliani, che da oltre quindici anni opera nelle associazioni di categoria promuovendo un’IVA agevolata per gli operatori dell’usato. Ma perché battersi per un regime agevolato se questo esiste già?

Giuliani pone un’importante premessa. “La normativa europea e italiana fissa da anni il principio per cui, quando i beni usati sono acquistati da soggetti che non addebitano IVA a monte, ad esempio i privati, l’imposta non dovrebbe colpire l’intero prezzo di rivendita ma solo il margine, ossia la differenza tra il prezzo di vendita e il costo di acquisto, al quale si possono sommare le spese di ripristino e accessorie. In questo modo si evita di tassare di nuovo il valore già assoggettato a IVA nella prima immissione al consumo quando il bene era nuovo e, allo stesso tempo, si rende sostenibile l’approvvigionamento di merce da privati. In alternativa, con aliquote applicabili sulla specifica categoria merceologica, o su soggetti che esercitano la vendita al dettaglio esclusivamente in forma ambulante, è possibile applicare regimi forfettari che riducono la base imponibile senza tener conto del prezzo di acquisto”.




Un settore trasformato

“Tutto appare molto corretto, ma purtroppo, allo stato attuale, si tratta solo di teoria”, considera Giuliani. “Di fatti l’economia italiana, così come quella degli altri paesi europei ad alto reddito, nell’ultimo mezzo secolo ha subito profonde trasformazioni, e il calcolo del margine indicato dalla legge non è quasi mai fattibile. Dei 100.000 operatori dell’usato attivi in Italia, solo una piccola minoranza riesce a usufruire del regime IVA speciale”.

Cosa è cambiato esattamente? Qual è il panorama contemporaneo del settore dell’usato? “Il potere d’acquisto è maggiore e la rotazione dei beni è più veloce; c’è quindi meno ricorso all’usato come risorsa di necessità, ed è maggiore la disponibilità di beni di seconda mano sul mercato. Essendoci meno domanda e più offerta, il valore di mercato dei beni usati è ancora più esiguo che in passato. A meno che non si tratti di beni pregiati, gli operatori dell’usato non hanno più i margini per adottare formule di acquisto pezzo per pezzo, e solo in casi specifici le comprano in stock. Oggi gli operatori dell’usato ritirano merci senza pagarle nel quadro di servizi di sgombero locali, oppure le raccolgono informalmente in strada e nei cancelli di entrata dei centri di raccolta comunali, oppure fanno intermediazione tra privati mettendo a disposizione i loro punti vendita. Inoltre, buona parte degli indumenti usati sono raccolti nel quadro delle raccolte differenziate dei rifiuti tessili”.

Classificazioni inadeguate

“A complicare la situazione”, aggiunge il patron di Leotron, “è l’inadeguata classificazione o l’informalità de facto degli operatori dell’usato e della loro attività. Non godendo di regimi classificazione che descrivono adeguatamente la loro attività di commercianti dell’usato, gli operatori non hanno buon gioco nel chiedere alle istituzioni i cambiamenti normativi che sarebbero necessari ad applicare il corretto regime IVA sulla loro attività.

Un segmento importantissimo è rappresentato dagli ambulanti, ma con la riforma del commercio implementata nel 2000 (Dlgs 114/98, ndr) le loro tabelle merceologiche sono state semplificate in alimentari e non alimentari; contestualmente sono stati abrogati gli articoli del Testo Unico di Pubblica Sicurezza che regolavano l’attività dei cosiddetti stracciaioli, condannando quindi all’informalità gli operatori che vendono cose usate nelle strade e nei mercati delle pulci. L’informalità è estesa anche ai loro metodi di raccolta tradizionali, che sono diventati illegali a causa dell’evoluzione della normativa ambientale”.

“Parallelamente, a partire dagli anni ’90, l’attività storica delle botteghe di rigatteria è stata rimpiazzata dalla più efficace formula dell’usato conto terzi, dove negozi di ampia superfice intermediano merci usate tra privati; questo segmento, che garantisce gran parte del riutilizzo dei beni usati voluminosi e copre una fetta di mercato sostanziale anche su oggettistica, indumenti, libri ed altre merceologie, era classificato con lo stesso codice ATECO delle agenzie immobiliari, creando grandi problemi sia a livello operativo che di concertazione; ma da quest’anno, finalmente, grazie alla pressione pluriennale degli operatori, è stato adottato un codice ATECO specifico per chi svolge questa attività (il 47.91.10 - Attività di servizi di intermediazione per il commercio al dettaglio non specializzato di articoli di seconda mano, ndr). Nel loro caso l’IVA viene applicata su una provvigione attiva che si assesta mediamente su un 50% del prezzo finale, ma dentro questo 50%, a differenza di altri intermediari, gli operatori sostengono tutti i costi di operazione di un negozio, e lo fanno a partire da un rapporto superfice/fatturato che è decisamente più sfavorevole rispetto a chi vende oggetti nuovi; l’usato, infatti, ha un prezzo molto basso, e aggiungere l’IVA al novero dei pagamenti rende a volte difficile raggiungere il punto di equilibrio economico”.

“Gli indumenti usati, dal canto loro, sono spesso convogliati nella raccolta differenziata dei rifiuti tessili e possono essere immessi sul mercato della seconda mano solo dopo operazioni di Preparazione per il Riutilizzo, in virtù delle quali, paradossalmente, sono classificati come beni nuovi. Ed essendo formalmente nuovi non sono assoggettabili ai regimi IVA dell’usato! Il paradosso si estenderà a tutte le nuove merceologie che, come è auspicabile, saranno coinvolte nella Preparazione per il Riutilizzo”.




Superare i paradossi

“Ora”, conclude Alessandro Giuliani”, l’Europa intende favorire il riutilizzo riesaminando i regimi IVA applicati alla seconda mano, e questa è una buona notizia perché si apre una finestra per superare i gravi paradossi che affliggono il settore. È però importante che, a questo giro, la riforma del regime IVA sia basata su analisi che descrivano l’economia reale del riutilizzo, che è un’economia basata sull’imprenditoria popolare e sulle microimprese a conduzione familiare. Se ciò non avverrà, il rischio è che la politica ambientale continui a puntare su formule economicamente non sostenibili, che sopravvivono solo grazie a sovvenzioni pubbliche e che non hanno le caratteristiche strutturali per generare risultati ambientali rilevanti. Penso, in particolare, ai Centri di Riuso così come hanno funzionato fino a oggi: posizionati in adiacenza o all’interno dei Centri di Raccolta Comunale, deviando artificialmente flussi di beni usati dal ciclo dei rifiuti e posti in vendita facendo concorrenza sleale ai retailer del territorio. Se questi beni, invece, fossero opportunamente classificati come rifiuti, potrebbero essere selezionati in piena sicurezza negli impianti di Preparazione per il Riutilizzo. Impianti che difficilmente potranno fiorire se la prospettiva è quella di subire un cherry picking a monte che sottrae loro i beni di maggiore qualità”.

Se si puntasse coerentemente sulla Preparazione per il Riutilizzo invece che sui Centri di Riuso, si creerebbero economie di scala e vendite all’ingrosso che favorirebbero i retailer anziché danneggiarli; l’applicazione di regimi di IVA agevolata su tutta la filiera massimizzerebbe senza dubbio i risultati ambientali. Allo stesso modo, creando agevolazioni ritagliate sulla formula conto terzi, con un’aliquota più bassa o formule forfettarie, tale attività sarebbe più sostenibile, l’informale emergerebbe, e le quantità riutilizzate aumenterebbero”.

“Una riformulazione dei regimi speciali che prenda atto del panorama imprenditoriale del riutilizzo servirebbe anche a correggere la distorsione del sistema sopravvenuta con il boom delle piattaforme online: i professionisti del riuso pagano IVA sul margine o sulla provvigione, mentre il peer-to-peer tra privati è fuori campo IVA; ciò significa che, a parità di bene, il canale professionale parte svantaggiato. La stessa logica del regime del margine nasce per evitare doppia imposizione e distorsioni di concorrenza, ma oggi non basta più a colmare il gap con il peer-to-peer. Occorre premiare le esternalità positive di chi fa il riutilizzo per mestiere, tutelando allo stesso tempo il consumatore. I negozi professionali, a differenza delle piattaforme online, assumono costi di selezione, sicurezza, garanzia, tracciabilità e si integrano, sempre più spesso, con la preparazione per il riutilizzo. Questi costi generano benefici ambientali/sociali che una riduzione IVA può riconoscere”.

“In Svezia, Belgio e Francia hanno già ridotto l’IVA sui servizi di riparazione di bici, calzature e tessili, con l’obiettivo di promuovere la circolarità e rendere competitivo l’operatore professionale. Lo stesso criterio andrebbe applicato anche sui retailer del riutilizzo”. n

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