Le (pericolose) pigrizie del mondo del riuso
Antonio Castagna
Cosa sta succedendo nel mondo del riuso negli ultimi anni? Possiamo dire ragionevolmente che gli attori del riuso sono riusciti a proporre un'agenda al decisore politico, hanno ottenuto una certa visibilità presso il grande pubblico, sono riusciti a intercettare (finalmente) una fascia di consumatori giovani e attenti al tema ambientale. Tutto molto significativo, utile, interessante. Voglio qui evidenziare però anche degli aspetti critici e a mio avviso fortemente sottovalutati. Mi riferisco a un tema di carattere generale e alla sua traduzione in interventi concreti, sia di carattere legislativo che produttivo e organizzativo.
Partiamo dalla questione di carattere generale, il tema dell'economia circolare, all'interno della quale il riuso si inserisce a pieno titolo.
Ma a quali condizioni? Il tema qui non è solo quello connesso ai decreti attuativi che dovrebbero favorire lo sviluppo dei centri di riuso e una più agevole attività a tutti gli operatori del riuso. Non è neanche quello del sostegno economico, sotto forma di finanziamenti o sgravi fiscali a chi, commerciando beni usati, contribuisce alla riduzione dei rifiuti. Il tema comincia a diventare drammaticamente differente. Prendiamo ad esempio, proprio per evidenziarne gli aspetti drammatici insieme a quelli di carattere metodologico, il settore del tessile, di cui Pietro Luppi ha con efficacia messo in evidenza le distorsioni nell'ultimo rapporto sul riutilizzo (1) e in un successivo paper pubblicato su Accademia.edu.
Tra il 2000 e il 2015 la produzione di tessile nuovo è raddoppiata, mentre è sceso il numero di utilizzi medi di un capo, da 200 a 150; nel contempo le fibre naturali sono state sempre più integrate da fibre sintetiche. Emerge dunque che i produttori di pronto moda hanno continuato ad accelerare i processi di sostituzione. Tutto questo mette molto in difficoltà il settore dell'usato che deve fronteggiare diverse minacce: 1) il nuovo costa poco e dunque è concorrenziale anche rispetto ai prezzi dell'usato; 2) l'usato è di qualità sempre più scarsa e la raccolta di abiti usati deve fare i conti con una quantità di prodotto da scartare sempre più grande; 3) le fibre tessili sono sempre più difficili da riciclare a causa dello scarso valore della materia prima, ragione per cui si rende necessario esportarle in distretti dove il lavoro costa poco e le condizioni di lavoro e di smaltimento dei reflui siano meno stringenti che in occidente.
Cosa vuol dire tutto questo? Che fare una battaglia per incentivare il riuso è semplicemente una battaglia di retroguardia, che lascia intatte le condizioni che ne definiscono la marginalità a livello italiano e a livello globale rispetto alla produzione e allo smaltimento. Il riuso risulta essere una pezza rassicurante messa su una voragine, mentre l'esportazione di abiti usati nei paesi africani rappresenta una minaccia per i piccoli produttori locali. Nel frattempo la continua crescita della produzione richiede grandi spazi monocolturali, sovrautilizzo della risorsa acqua e continua necessità di accrescere la produttività immettendo ulteriori fattori produttivi: diserbanti e concimi chimici. Tutto questo non fa che: 1) confermare le disuguaglianze globali; 2) produce inquinamento e impoverimento dei suoli; 3) relega il riuso a ruolo ancillare e marginale.
I meccanismi che regolano la produzione e il commercio dei tessuti sono visibili in altri settori produttivi, basti pensare all'elettronica di consumo e all'automotive.
L'impressione che ne ricavo è che stiamo assistendo a un progressivo svuotamento del concetto di economia circolare. È sufficiente infatti garantire la costante reimmissione nei circuiti produttivi di quantità di materia per poter dire di essere circular, sganciando tale etichetta da quello che è stato l'innesco che ha messo al centro dell'attenzione l'economia circolare, e cioè la necessità di ridurre progressivamente lo sfruttamento di materia prima vergine. I processi di accelerazione nella sostituzione dei beni invece ottengono esattamente l'effetto contrario, mentre l'attenzione dei media si concentra esclusivamente sulla riduzione delle emissioni (altra distorsione comunicativa denunciata efficacemente da Jonathan Franzen in E se smettessimo di fingere?, Einaudi, 2020).
Per come ho inteso io il tema dell'economia circolare la questione non è tanto connessa al recupero di materia prima attraverso riuso o riciclo, quanto all'acquisizione di uno sguardo sistemico capace di riconoscere il sistema di retroazioni causato da ciascuna delle fasi di produzione utilizzo e smaltimento di un bene, intervenendo sullo stesso allo scopo di trasformare ogni output di un processo in input di nuovi processi. Le domande che pongo qui al settore del riuso sono due: siamo sicuri che uno sguardo settoriale contribuisca a generare un contesto adatto allo sviluppo del settore? Siamo sicuri che non ci serva uno sguardo più generoso a carattere sistemico?
(1) Osservatorio del riutilizzo, Occhio del Riciclone, Rapporto nazionale sul riutilizzo 2021, Sulle tracce degli scenari futuri; e Pietro Luppi, Indumenti usati: una panoramica globale per agire eticamente, Accademia.edu.