Grandi Corporation e Usato: il matrimonio difficile
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Grandi Corporation e Usato: il matrimonio difficile

Martedì 12 Ottobre 2021
Alessandro Giuliani

Per gli abiti usati l'introduzione della Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) è imminente. E nel momento in cui i produttori del tessile nuovo si troveranno a dover finanziare e organizzare le filiere del recupero, ovviamente le regole del gioco cambieranno per tutti: per i produttori stessi, per chi raccoglie e recupera i rifiuti tessili, per chi vende abiti usati, per chi li ricicla e anche per i consumatori. Il nuovo schema infatti, seppur dominato da industrie tessili e fabbriche di abbigliamento, per poter funzionare dovrà in qualche modo implicare forme di sinergia tra tutti gli stakeholder; e, in ogni caso, provocherà pesanti effetti e ripercussioni sul mercato.

corporation

Prima di scrivere questo articolo ho interpellato la mia amica Karina Bolin che, in qualità di Presidente di Humana People to People, da decenni si occupa di raccolta e recupero di rifiuti tessili. Su questo argomento le posizioni di Karina sono estremamente semplici e lineari. Lei non fa distinzione tra player e interessi diversi ma parla di una categoria che li comprende tutti quanti: l'umanità. "Una delle sfide più grandi per l'uomo in questo momento storico" dice Karina Bolin "è creare un modello economico veramente sostenibile e in tempi rapidi. Non è più possibile mantenere gli stessi livelli di consumo: le risorse sono limitate, ma soprattutto l'inquinamento e l'emissione di gas serra impattano fortemente sul clima e l'ecosistema rischia di diventare ostile e poco adatto alla vita umana". E, sulla base di questo, Karina Bolin ritiene che "nei modelli di responsabilità estesa del produttore (EPR), i produttori nel settore della moda devono rispettare la necessità di prolungare la vita di ogni capo e dare priorità assoluta al riuso, per salvaguardare le risorse naturali e mitigare il riscaldamento globale". "Gli operatori nel settore dell'usato", afferma, "sono fondamentali per rendere efficienti questi nuovi modelli e devono essere pronti a gestire nuovi flussi e quantità in crescita, attivando collaborazioni con chi persegue i veri obiettivi dell'economia circolare". Anche i decisori pubblici, ovviamente, devono fare la loro parte. "La normativa" dice Karina Bolin "deve regolamentare l'obbligo relativo al riuso e il rispetto completo della gerarchia del rifiuto. Senza direttive chiare sarà impossibile sortire gli effetti necessari per cambiare rotta e mitigare l'effetto serra".




Come coniugare questi obiettivi di utilità collettiva con i legittimi interessi particolari degli attori in campo? A oggi le grandi corporation, che potrebbero avere il ruolo più rilevante nel nuovo sistema, sembrano voler puntare tutto sulla loro presenza verticale nella filiera. Disponendo delle proprie reti di retail hanno infatti la possibilità di attivare "reverse logistic" (o "rottamazioni" o "take back") di abiti usati del proprio brand sfruttando la legge 116/2020, che consente ai negozi al dettaglio coinvolti nei regimi EPR di svolgere la funzione di depositi preliminari di rifiuti urbani; il flusso di ritorno sembra garantire alle corporation una pluralità di vantaggi. I primi due sono sicuramente i seguenti:

Ci sono poi altri vantaggi, veri o presunti, legati alla possibilità di applicare un "ciclo chiuso" ("closed loop"). Infatti, essendo selettivo e limitato al proprio brand, il flusso di ritorno riguarda abiti composti da materiali tessili perfettamente conosciuti e maggiormente reintegrabili nel proprio processo produttivo (visto che è proprio da lì che vengono!). C'è poi un altro aspetto, che alcune corporation considerano importante: con un "closed loop" dove il riusabile è rivenduto nei propri canali (negozi second hand brandizzati piuttosto che speciali corner presso i negozi già esistenti), certe corporation avranno la possibilità di ridurre, attraverso l'accaparramento, quello che considerano un annoso problema: il posizionamento dei loro brand nei canali generalisti degli operatori dell'usato. Ci sono corporation che vivono questo tema come una vera e propria ossessione. Adidas, ad esempio, ha l'abitudine di denunciare a Facebook tutti gli operatori dell'usato che pubblicano nelle proprie pagine foto di scarpe e capi Adidas di seconda mano; e di conseguenza Facebook, senza perdere tempo in contraddittori, chiude sistematicamente le pagine degli operatori dell'usato (dato che non fa riferimento al diritto civile ma a proprie regole arbitrarie il cui criterio ispiratore si riduce spesso alla volontà di evitare rogne con il più forte). Un caso emblematico che dimostra come certe politiche commerciali e di brand, agganciate a una certa mentalità, possano presentare gravi incompatibilità con quelli che Karina, citata sopra, ha definito i "veri obiettivi dell'economia circolare". Un altro caso degno di analisi è quello di HM, che ora sarà vincolata per legge a rispettare una gerarchia dei rifiuti fondata sul riutilizzo ma che in passato è stata criticata per fare "rottamazioni" il cui esito finale era l'incenerimento dei capi riutilizzabili (incenerimento, che in base a una logica tutta propria definiva "riuso"). Il "closed loop", oggi molto in voga tra CDA, consulenti e responsabili dei reparti di sostenibilità, dal punto di vista dell'utilità collettiva ha un grande punto debole: se a gestirlo sono soggetti che vivono il recupero come una vessazione che fa perdere loro volumi di vendita è ovvio che, nella misura del possibile, utilizzeranno tutte le leve a loro disposizione per evitarlo. Tale visione, o sentimento, porta in sé anche un'altra potenziale criticità: gli abiti infatti non possono essere reimmessi in circolazione solo dopo operazioni obbligatorie di trattamento dei rifiuti e solo dopo opportune operazioni di suddivisione ("fine sorting"); il costo congiunto di tali operazioni non sempre è sostenibile in Italia e per questa ragione, oggi, la filiera si sviluppa internazionalmente; risulta quindi arduo immaginare che i grafici con circoletto chiuso che sembrano suggerire prossimità, e che spesso vengono presentati da I.co, Fondazione McArthur e dagli altri enti che promuovono questi tipi di modello, siano molto più che un'illusione.

Alla luce di queste criticità, sembra particolarmente interessante la scelta di Intimissimi, che anziché ragionare in termini di ciclo chiuso ha deciso di puntare direttamente su una logica "open loop", ossia su un ciclo aperto, consegnando il proprio flusso di ritorno ad Humana People to People, la quale conta su una filiera internazionale già consolidata i cui player vivono di riutilizzo e riciclo e hanno tutto l'interesse di minimizzare lo smaltimento. Allo stesso modo ci sono altri operatori storici della raccolta degli abiti usati che iniziano a proporre ai produttori tessili servizi che includono, tra le altre cose, anche la messa in campo di reti retail solidali.




Infine, penso sia utile menzionare una grande questione, che forse è la più importante di tutte: se le corporation, indipendentemente dalla natura chiusa o aperta del loro ciclo di recupero, puntano tutto su reverse logistic completamente selettive e quindi ai flussi maggiormente valorizzabili, chi si farà carico del resto del flusso? Oggi la gran maggioranza degli abiti usati viene raccolta con i contenitori stradali senza che i cittadini debbano sborsare una lira perché i Comuni, in virtù di uno schema di accordo che rischia di crollare, concedono l'autorizzazione a raccogliere ad operatori disposti a farlo gratuitamente e a farsi carico anche della gestione delle qualità peggiori. Perché lo fanno? La risposta è semplice: lo fanno perché in cambio ottengono la gestione della frazione più valorizzabile. E' quindi ovvio che se la migliore qualità valorizzabile verrà accaparrata dai depositi preliminari del retail dell'abbigliamento, nei contenitori stradali rimarrà solo la bassa qualità. A questo punto si aprono due scenari possibili:


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