EPR e Riuso: la somma delle parti non fa il totale
Redazione Leotron
Per i beni durevoli l’arrivo della Responsabilità Estesa del Produttore è sicuro quanto il sopraggiungere dell’alba. E ora sembra di essere alle cinque del mattino di un giorno d’estate: il sole ancora non si mostra ma lancia le sue prime avvisaglie. Prima toccherà all’abbigliamento e ai prodotti tessili. Poi dovrebbero seguire materassi e mobili. Gli apparati elettrici ed elettronici il loro regime EPR già lo hanno ma più presto che tardi dovranno cominciare a porsi seriamente la questione della preparazione per il riutilizzo. Abbiamo chiesto ad Alberto Ferro di condividere alcune opinioni e riflessioni personali su questo argomento. Opinioni provenienti dall’esperienza dato che Ferro da oltre 12 anni è amministratore in società di riciclo dei materiali e da dieci anni è Coordinatore della Commissione Differenziata e Riciclo di Utilitalia e siede per le aziende di igiene urbana ai tavoli di negoziazione con gli organismi collettivi dei produttori.
Ferro, dopo tanti anni a occuparsi dell’EPR per i rifiuti d’imballaggio, dovrà molto presto dedicarsi anche all’EPR di una gamma crescente di beni durevoli. Quali prospettive si aprono secondo lei?
Vorrei prima parlare delle cose positive. Intanto che i materiali assoggettati all’EPR si allarghino è cosa molto buona. Poi l’impostazione normativa dell’EPR è cambiata, e questo di sicuro stimolerà gli organismi EPR già esistenti a mettersi in discussione, a ritrovare slancio e a mantenere il loro storico livello di eccellenza evitando sclerotizzazioni. La prospettiva indicata dalla direttiva europea sembra finalmente basata sulla responsabilità totale dei produttori, e quindi alcuni dei peggiori difetti dei sistemi di responsabilità 'condivisa' e 'integrata' potranno essere lasciati alle spalle.
E gli aspetti negativi, invece, quali sono?
Più che di aspetti negativi penso sia corretto parlare di rischi. Quando si aprono nuovi scenari è giusto parlare il prima possibile dei pericoli perché questo dà modo, se non di assestare subito la rotta, almeno di moltiplicare l’attenzione sui punti di eventuale criticità. Personalmente sono preoccupato soprattutto dagli approcci di eccessiva focalizzazione dei perimetri di responsabilità. Il concetto che sta passando è che ogni produttore debba essere responsabile solo e soltanto delle specifiche merci che immette al consumo, e in funzione di obiettivi di recupero che rappresentano solo una quota del totale. Mettendosi a ritirare in modo selettivo i rifiuti del proprio brand e usando i negozi al dettaglio come deposito preliminare, i produttori potrebbero puntare ad aggiudicarsi le qualità migliori del flusso. Ma quest’ultimo non è fatto solo di buone qualità. Ci sono anche le qualità inferiori e le qualità pessime, ci sono gli scarti impossibili da valorizzare, ci sono le frazioni similari e quelle confondibili, che rappresentano zone grige di cui qualcuno dovrà comunque farsi carico. E il pericolo, che a mio avviso è molto probabile, è che tutti questi rifiuti finiscano sistematicamente fuori dalla quota che i produttori gestiranno per raggiungere i loro obiettivi di compliance ambientale.
Quindi chi dovrà farsene carico?
Ovviamente le aziende di igiene urbana dal punto di vista del lavoro e quindi i cittadini sopportano il costo con la tariffa. Ma il mio non è un discorso di categoria. Se le aziende di igiene urbana dovranno cambiare modo di lavorare lo faranno, anche se implicasse il ricalcolo di tutti gli equilibri di sostenibilità economica. La mia preoccupazione è di carattere più generale. Ossia, mi chiedo se questo approccio che definirei “egoistico” non rischi di produrre gravi disfunzionalità economiche ed ambientali a danno dell’intera collettività.
A cosa si riferisce esattamente?
Provo a fare una metafora. Immaginiamo di essere in un condominio dove l’amministratore, a un certo punto, chiede a tutti gli inquilini di farsi carico della pulizia del proprio pianerottolo. Il principio è bellissimo ma la mia domanda è: chi pulisce le aree comuni? Chi pulisce le scale? E gli angoli bui? Perché se ognuno è responsabile organizzativamente e finanziariamente solo e soltanto del proprio pianerottolo, non si capisce bene come si provvederà al resto. E se la responsabilità diventa totalmente degli inquilini, e mi riferisco ovviamente ai produttori, chi diventa il responsabile dei rivoli che per una ragione o per l’altra fuoriusciranno dal sistema? Prima nella gestione dei rifiuti il concetto chiave era quello dell’igiene urbana. Che, con tutti i suoi limiti, garantiva comunque una visione complessiva e integrata sia dei problemi che delle opportunità derivanti dal rifiuto; per rendere pulita una città, infatti, bisogna raccogliere tutto quanto. Ora invece l’enfasi è totalmente sul recupero. Ma, per quanto il recupero si possa spingere in avanti, rimane sempre una quota in avanzo. E anche se questa frazione fosse annullata del tutto, rimangono varie classi di qualità. Non tutti i materiali recuperabili hanno lo stesso valore, e se quellli che valgono di meno vengono gestiti separatamente da quelli che valgono di più, rischiano di saltare gli schemi economici e operativi che garantiscono il massimo recupero. Quindi, paradossalmente, l’EPR potrebbe far diminuire, e non aumentare, il recupero.
Gestire separatamente i flussi quindi non va bene?
Certo che va bene. Ma sempre e quando ciò avvenga nel quadro di una pianificazione integrata e di insieme. Le aziende di igiene urbana quando programmano una rotta di raccolta cercano il più possibile di integrare i costi unendo vari flussi e ripartendo i costi su ogni singolo chilo raccolto. Grazie a questo sistema i costi vengono equanimemente ripartiti su tutto il flusso, e la raccolta delle frazioni più valorizzabili garantisce la sostenibilità economica della raccolta di quelle che valgono meno. E una volta raccolto tutto, puntare al massimo recupero diventa l’opzione più conveniente. A valle di questo meccanismo, infatti, per evitare lo smaltimento e i suoi costi economici ed ambientali si può procedere con i più alti gradi di raffinazione e specializzazione. Mi preoccupa invece che tale raffinazione e specializzazione avvenga a monte. Ovvero che i produttori che raccolgono attraverso le loro reti del retail possano decidere cinicamente: questo lo prendo e questo invece non lo prendo. A quel punto l’utente, che comunque dovrà disfarsi del proprio rifiuto, consegnerà ai produttori la migliore qualità, magari invogliato da voucher e offerte di sconto per i nuovi acquisti, e abbandonerà il resto a un sistema generalista di raccolta dei rifiuti urbani al quale sono venuti a mancare i presupposti per poter puntare il massimo recupero. La teoria soggiacente al nuovo approccio sembra essere che se ognuno si fa responsabile del proprio pezzetto, la somma degli sforzi garantirà il risultato globale. Ma io su questo punto sono molto scettico. Il mercato selvaggio non sempre funziona. In settori complessi come quello dei rifiuti, invitare i player a scannarsi per aggiudicarsi i flussi migliori rischia di premiare gli spregiudicati, quelli che lavorano in modo scorretto e quelli che se ne approfittano. La celebrazione dell’egoismo non si traduce in responsabilità ma in qualcosa di molto più rozzo.
Della serie “io corro per me e che gli altri si impicchino”?
Esattamente. Nel settore ambientale la concorrenza funziona bene solo se esiste un’autorità valutatrice, capace di orientare la competizione verso l’interesse collettivo e di vincolare i competitori a raggiungere obiettivi globali. A volte si dice che la somma delle parti supera il totale; in certi casi credo che avvenga esattamente il contrario: la somma delle parti è inferiore al totale. Questo è il pericolo che va visto in tempo, per poterlo evitare.