Esportazione abiti usati: il dibattito è sempre più caldo
Articolo apparso a giugno su Oltreilgreen24, newsletter di approfondimento realizzata da Safe-Hub delle Economie Circolari in collaborazione con il Sole24ore. Si ringrazia Safe-Hub delle Economie Circolari per la gentile concessione.
I paper, i congressi e le proposte si moltiplicano. Da questo mare magnum ancora non emergono linee chiare, ma ciò che sembra sicuro, o fortemente probabile, è che entro pochi anni il mercato mondiale degli abiti usati avrà un volto diverso.
“A detonare con così tanta forza il dibattito è stato il combinato congiunto di una pluralità di fattori”, osserva Massimiliano Marin, Business Development Manager dell’area tessile di SAFE-Hub delle Economie Circolari. “Da un lato c’è la strategia europea sul tessile circolare, con tutte le sue derivazioni normative, tra le quali l’implementazione di specifici regimi di responsabilità estesa del produttore, nel quadro di una riforma generale della gestione dei rifiuti che include, tra le altre cose, politiche di tracciabilità e controlli più stringenti sulle esportazioni nei paesi extra OCSE. E dall’altro lato c’è l’enorme pressione dell’opinione pubblica provocata dai numerosi servizi giornalistici che, a partire dal 2021, hanno mostrato con sempre maggior insistenza le immagini degli smaltimenti selvaggi dei tessili post-consumo spediti da Europa e Stati Uniti in Africa, Asia e America Latina. Un terremoto mediatico e normativo che ha spinto i player direttamente ed indirettamente interessati a costruire e promuovere narrazioni che a volte sono di segno diverso”.
“C’è chi insiste sulla necessità di bloccare tout court questo tipo di esportazioni, per prevenire il rischio di impatti ambientali, e chi, al contrario, minimizza i risvolti negativi del fenomeno sottolineando il vantaggio ambientale di un riutilizzo su grande scala. Il vero cuore della questione è che, senza i mercati finali dei paesi extra OCSE, non è possibile portare il riutilizzo al suo massimo potenziale. E il riutilizzo, come risaputo, è in cima alla gerarchia dei rifiuti”.
“Da un punto di vista ambientale, di sicuro la soluzione più desiderabile è quella di mantenere l’opportunità ambientale generata da questo tipo di esportazioni, ma nel quadro di filiere della seconda mano che siano tracciate, controllate e sostenibili. Riutilizzo sì, ma senza il rischio di smaltimenti selvaggi. Questa è, in grandi linee, la posizione che stanno assumendo sia l’Unione Europea che le più importanti istituzioni e think tank internazionali”.
La posizione francese e gli accordi internazionali sui rifiuti
A far tremare l’intero settore della selezione ed esportazione di rifiuti tessili ed abiti usati, a marzo 2024, era stato il Ministro dell’Ambiente francese Christophe Béchu. “L’Africa deve smettere di essere la pattumiera del nostro fast-fashion. Dovremmo ridurre i rifiuti e gestire i nostri rifiuti”, aveva dichiarato l’esponente del Governo francese, chiedendo contestualmente al Consiglio Europeo di assumere una posizione comune per portarla a primavera 2025 alla Conferenza delle Parti (COP) incaricata di discutere ed aggiornare le Convenzioni ambientali di Basilea (accordi internazionali a proposito di import/export di rifiuti), Rotterdam (procedura di previo assenso informato per le sostanze pericolose, abbreviata in “PIC”) e Stoccolma (sugli inquinamenti organici persistenti, abbreviati in “POP”).
Danimarca e Svezia si erano immediatamente accodate alla richiesta francese. Ma la Francia stessa, nei mesi successivi, aveva fatto una parziale marcia indietro fissando obiettivi di “nazionalizzazione” del riuso pari al 15% entro il 2027, riconoscendo implicitamente che, per il rimanente 85% del flusso riutilizzabile la soluzione si trova nei mercati esteri. L’Olanda, analogamente, si è data l’obiettivo di un 15% di riutilizzo nazionale entro il 2030.
Durante la COP tenutasi a Ginevra tra il 29 aprile e il 9 maggio, alla presenza di 180 governi, la questione dell’esportazione di rifiuti tessili ed abiti usati è stata effettivamente posta sul tavolo, ma a porla con maggiore forza non sono stati gli europei ma gli africani. Kenya, Nigeria e Ghana, in particolare, hanno chiesto di inserire i tessili tra i flussi controllati ai sensi della Convenzione di Basilea, e di stabilire un protocollo per distinguere chiaramente i rifiuti tessili dagli abiti usati. Il documento finale della COP di Ginevra non include decisioni su questo tema, ma un ciclo di consultazioni è stato avviato (con deadline il prossimo 15 novembre) e risoluzioni vincolanti potrebbero essere adottate nelle prossime conferenze delle parti.
“Tra le misure più probabili”, riferisce Massimiliano Marin, “ci saranno l’introduzione di una procedura di assenso informato (PIC) per l’esportazione dei rifiuti tessili, l’ampliamento della gamma dei rifiuti inclusi nel codice B3030 stabilito dalla Convenzione di Basilea, che oggi non menziona esplicitamente le scarpe usate generando infiniti fraintesi nelle dogane, e, infine, l’adozione di Linee Guida tecniche internazionali per distinguere il tessile usato dal rifiuto tessile”.
L’intervento di UNEP
Ad essere determinante per le decisioni COP sarà il lavoro di analisi e formulazione di proposte compiuto da UNEP, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Ambiente, che nel quadro della sua iniziativa globale sul tessile sta portando avanti, con fondi dell’Unione Europea, il Circularity and Used Textile Trade Project. Il progetto, che ha preso a campione quattro tra i principali paesi importatori (Ghana, Kenya, Tunisia e Pakistan), è iniziato nell’ottobre 2023 e si concluderà il 30 settembre 2025. Il progetto, riferisce UNEP in una nota ufficiale, assume come premessa “l’urgenza di una transizione verso una filiera tessile sostenibile e circolare”, riconoscendo “il ruolo che il commercio e le politiche sul commercio possono e devono svolgere per promuovere questo processo”. L’obiettivo è “identificare le principali priorità politiche, normative, finanziarie e di investimento, così come le riforme politiche e le opzioni di finanziamento che consentano questo cambiamento trasformativo”.
Parallelamente, “il progetto svilupperà anche linee guida globali per determinare l’idoneità al commercio dei prodotti tessili usati e criteri per distinguere tra tessili usati e rifiuti tessili, al fine di creare valore economico e promuovere uno sviluppo sociale inclusivo, in armonia con l’ambiente”.
Distinguere tra abito usato e rifiuto è sufficiente?
L’International Solid Waste Association (ISWA), il più grande e prestigioso think tank internazionale dedicato alla gestione dei rifiuti, ha creato nel 2024 uno specifico gruppo di lavoro dedicato all’import/export di rifiuti tessili ed abiti usati. Capitanato dall’accademica di lungo corso Anne Scheinberg, il gruppo di lavoro si è riunito ad Helsinky, a Città del Capo ed infine, lo scorso maggio, presso la Fiera Eurasia ad Istanbul. Pietro Luppi, invitato a descrivere le filiere africane della seconda mano e il modo in cui essere generano i rifiuti, ha sottolineato che “una quota consistente degli stock di abiti usati importati non viene venduta”, e che tale invenduto può essere suddiviso tra: a) materiali effettivamente invendibili, la cui presenza può essere prevenuta con meccanismi ispettivi a monte e valle delle spedizioni internazionali; b) materiali riutilizzabili ma difficilmente commerciabili dal canale di destinazione, la cui presenza può essere prevenuta attraverso procedure di qualità; c) invenduto strutturale, che nel commercio usato, così come in quello del nuovo, è un fenomeno fisiologico e difficile da azzerare. “Non tutto l’invenduto diventa rifiuto”, ha segnalato Luppi. “Parte di esso è riallocato in altri canali di usato al dettaglio, analogamente a quanto accade quando l’invenduto nuovo è affidato ad outlet e stocchisti, oppure donato alle famiglie povere che vivono nei pressi dei mercati. Un’altra parte viene rivenduta a bassissimo costo ad operatori informali dell’upcycling, che, diversamente dall’upcycling creativo dei paesi più ricchi, che tende ad essere testimoniale ed elitario, avviene su grande scala e si rivolge a un mercato di massa; i mercati di abiti usati africani hanno spesso interi reparti artigiani dedicati a questo tipo di attività. L’invenduto non riutilizzabile, quando è di cotone, viene invece affidato ad officine meccaniche per essere usato come pezzame. Una parte del flusso viene cannibalizzata, con la rimozione delle zip e altre componenti reputate interessanti, oppure utilizzata come riempitivo nella produzione di cuscini e sofà. Ognuno di questi rivoli di recupero produce inevitabilmente degli scarti, i quali, facendo un calcolo accurato, dovrebbero essere sommati al flusso che diventa direttamente rifiuto. Dipendendo dall’opzione di recupero applicata, lo scarto risultante dalle operazioni può oscillare da quote davvero minimali fino a quote che probabilmente si aggirano tra il 50% o e il 90%, come accade con upcycling e cannibalizzazione”.
Qual è quindi la percentuale di abiti usati che diventa rifiuto? “La verità”, ha affermato Luppi, “è che ancora nessuno lo sa. Nel 2021 la Fondazione OR aveva denunciato il fenomeno in Ghana dichiarando ai media di tutto il mondo una quota di rifiuto pari ad oltre il 40% del contenuto delle balle di abiti usati importate nel paese: ma a questa quota veniva assimilato il totale dell’invenduto, senza considerarne le prassi di recupero. Ora si tende a fare l’errore opposto, inserendo nel computo solo ciò che diventa direttamente rifiuto quando la balla importata viene aperta; da questa analisi parziale del fenomeno risultano quote comprese tra il 2% e il 5%, che sono a mio avviso altrettanto irrealistiche delle quote del 40%-50% che venivano dichiarate agli albori del dibattito”.
L’accademica tanzanese Alodia Ishengoma ha mostrato a Istanbul un campione di biancheria intima di seconda mano selezionata in un mercato dell’usato di un quartiere popolare di Dar es Salaam. “Nonostante il totale divieto di importazione, la biancheria intima usata continua a essere contrabbandata nel nostro paese per mezzo di dubbi meccanismi, e in virtù di altrettanto dubbi meccanismi di controllo viene esposta e venduta pubblicamente”, ha evidenziato la studiosa. “D’altro canto, i paesi esportatori sono colpevoli della spedizione in massa di indumenti poco igienici e di scarsissima qualità”.
“Quantificare il rifiuto generato dai venditori di abiti usati non è semplice”, ha aggiunto Alodia Ishengoma, “anche perché i punti di conferimento a volte sono gli stessi utilizzati dai consumatori finali per gettare i loro abiti a fine vita; inoltre, una quota importante degli abiti di bassa qualità viene avviata direttamente ad aree rurali del paese, lontane dalle grandi città, dove il grado di effettivo riutilizzo è sconosciuto”.
Una possibile via metodologica per superare il dilemma è stata offerta dall’accademica pakistana Shiza Aslam, che ha comparato le caratterizzazioni merceologiche del rifiuto solido urbano di origine domestica con le merceologie effettivamente presenti nelle discariche, mostrando che la quota di rifiuti tessili e da calzature presente in discarica è molto maggiore rispetto a quella generata dalle utenze domestiche (oltre 8% in discarica, a fronte di un 5% nei rifiuti prodotti dalle famiglie). L’analisi specifica della discarica di Lahore, che è una delle città più grandi del paese, mostra tra il 2011 e il 2017 un incremento esponenziale della quota del tessile, che da meno del 4% arriva a toccare l’11%. Una crescita che può essere messa in correlazione sia con l’incremento delle importazioni di tessili usati che con la possibilità di conferimenti impropri da parte dell’industria tessile locale. Il Pakistan è attualmente uno dei più grandi importatori mondiali non solo di abiti usati destinati al consumo diretto, ma anche di materie secondarie tessili per l’industria.
A essere difficile, allo stato attuale, è addirittura la caratterizzazione dei flussi dell’import/export. Il belga Tom Duhoux, esponente del centro di ricerca VITO, ha mostrato che l’esportazione di tessili usati dall’Unione Europea, successivamente al raddoppio dei volumi avvenuto tra il 2005 e il 2015, si è stabilmente assestata attorno alle 1,4 milioni di tonnellate annue tra il 2015 e il 2023.
Ma il dato si basa su registri europei di esportazione e dichiarazioni statistiche che non differenziano gli abiti usati dai rifiuti tessili; non si sa quindi quanto sia il volume destinato direttamente ai canali della seconda mano, ossia interamente dedicati al riutilizzo, e quanto invece è destinato ad impianti di selezione che, oltre all’output di riutilizzo, generano fisiologicamente anche un 50% di materie riciclabili e rifiuti da smaltire.
Ad enfatizzare l’urgenza di trovare soluzioni di sostenibilità e trasparenza per le filiere extraeuropee della seconda mano è stato David Roman, esponente della charity inglese British Hearth Foundation, che, come altre charity europee, ha sperimentato una forte riduzione delle donazioni di abiti usati a partire dalla diffusione mediatica degli smaltimenti selvaggi nei paesi di importazione. Grazie alla vendita al dettaglio e all’esportazione degli abiti usati, la British Hearth Foundation è riuscita nel 2023 a destinare alla ricerca sulle malattie cardiovascolari quasi 30 milioni di euro. Nel 2024 i fondi ottenuti sono scesi a poco più di 22 milioni di euro.
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