La Geopolitica degli abiti usati
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La Geopolitica degli abiti usati

Martedì 07 Settembre 2021
Pietro Luppi

L'abbigliamento usato, spesso reputato un settore povero che smuove solo interessi marginali, in realtà ha un peso di tutto rispetto non solo nelle economie locali ma anche nell'arena del commercio internazionale. Le sue dinamiche di prezzo e il suo potenziale competitivo e di impatto economico, sono costantemente sul tavolo delle negoziazioni tra governi. La dimensione internazionale del mercato dei vestiti usati è particolarmente rilevante: gran parte dei rifiuti tessili raccolti in Italia vengono spediti all'estero dove vengono avviati ai canali della seconda mano e, in misura minore, a quelli del riciclo; quasi il 90% del fatturato degli operatori nazionali del recupero del tessile deriva dalle esportazioni.

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Per capire la geopolitica degli indumenti usati bisogna partire dal mercato mondiale dell'abbigliamento nuovo. Fino all'inizio del millennio nei paesi OCSE, includenti l'Italia e altri membri dell'Unione Europea, vigeva l'Accordo Multifibre, poi estintosi perché incompatibile con le regole di libero mercato dell'Organizzazione Mondiale del Commercio. In virtù di questo accordo, i paesi più ricchi del pianeta avevano la possibilità di proteggere le proprie industrie tessili locali limitando l'importazione di abbigliamento dalla Cina e da altri paesi in grado di inondare i mercati di vestiti a prezzi stracciati. Nel quadro di una lotta economica di livello globale, Europa e USA hanno reagito alla fine dell'Accordo Multifibre in vari modi e uno di questi, perfettamente concorde con gli obiettivi ambientali di recupero dei rifiuti, è stato l'impulso alla raccolta ed esportazione di abiti usati. Questi ultimi infatti, per il loro basso prezzo, sono in grado di competere in tutto il mondo con i vestiti di produzione asiatica. Da oltre quindici anni a questa parte, Europa e USA quando fanno accordi bilaterali o multilaterali con paesi più deboli, cercano di infilare come clausola l'obbligo ad accettare l'importazione dei propri abiti usati; ad esempio, per i paesi più poveri dell'Unione Europea, una delle condizioni per far parte dell'Unione è non porre barriera alcuna all'importazione di vestiti usati. La Cina come reazione, quando offre investimenti e altri benefici a un paese debole, cerca di imporre come clausola l'adozione di leggi locali che vietino questo tipo di importazioni. In realtà, al di là della pressione cinese, spesso sono le stesse corporazioni interne a spingere perché i loro Governi innalzino barriere agli indumenti usati provenienti dall'estero; sia le associazioni di categoria delle industrie tessili locali che i sindacati dei loro lavoratori, reputano infatti che per gli abiti nuovi di produzione nazionale è impossibile, o difficile, posizionarsi sul mercato locale quando quest'ultimo è invaso da abbigliamento usato low cost di provenienza straniera.

Lo studioso David Watson, consulente del Nordic Council of Ministers argomenta che la vocazione delle produzioni tessili africane dovrebbe essere l'esportazione verso paesi più ricchi, e che questi ultimi per aiutare le economie africane, invece di sospendere le esportazioni di abiti usati dovrebbero moltiplicare gli investimenti in campo industriale. Oxfam, ONG che si autofinanzia vendendo vestiti usati in Africa, nel 2005 ha pubblicato uno studio nel quale, tra le altre cose, commenta che nella seconda metà del ventesimo secolo le industrie tessili protette da regimi protezionisti erano estremamente inefficienti per colpa dell'assenza del libero mercato e pertanto non riuscivano neanche a soddisfare la domanda locale compromettendo l'accesso delle popolazioni al bisogno primario di vestirsi. Contro questi argomenti, il fronte delle industrie e sindacati africani che si oppongono all'importazione di abiti usati ha più volte portato l'esempio dei canali preferenziali AGOA, che consentivano a numerose industrie tessili dell'Africa Occidentale di esportare agli Stati Uniti a condizioni di favore; ma quando il Presidente Obama, da un giorno all'altro, decise di cancellare questi canali preferenziali come rappresaglia per l'apertura dei rispettivi governi ad investimenti cinesi, le industrie tessili collassarono perché non potevano contare sul mercato nazionale, essendo quest'ultimo dominato dalle offerte di abiti usati provenienti da Europa e USA. La storia dell'economia mostra chiaramente che il primo passo verso una società industrializzata è lo sviluppo di una forte industria tessile locale. Non a caso i principali paesi in via di sviluppo produttori di tessile proibiscono tassativamente l'importazione di abiti usati; tra di loro ci sono l'India, la Cina, il Brasile, il Messico e l'Argentina e un numero crescente di paesi asiatici, latinoamericani ed africani. Il punto nodale del dibattito, evidente analizzando tutte le posizioni dialettiche in campo, è quindi il seguente: gli abiti usati danneggiano lo sviluppo delle nazioni o garantiscono l'accesso di certe popolazioni a un bisogno primario? Entrambe le cose sono vere, e gli studi che negano uno dei due aspetti di questa realtà sono normalmente viziati da parzialità o da metodologie inadeguate: c'è, ad esempio, chi cerca di negare gli impatti negativi delle importazioni pubblicando sondaggi tra la popolazione che affermano che la maggioranza delle persone del luogo reputano che quella degli abiti usati è un'economia positiva, ma è ovvio che il presunto parere popolare non annulla gli effetti microeconomici e macroeconomici del fenomeno; oppure, più frequentemente, c'è chi offre diagnostici a partire da "fotografie" statiche del mercato locale senza tenere conto che lo sviluppo economico va valutato come un processo dinamico.




Occorre poi, pragmaticamente, tenere conto anche di un altro aspetto: nella maggior parte dei paesi che applicano moratorie all'importazione, gli abiti usati continuano ad arrivare per mezzo del contrabbando. La Cina stessa, fino a poco fa, importava ingentissimi quantità di vestiti usati di contrabbando: un commercio che ha ricevuto un duro colpo quando nel 2019 la maxi-potenza asiatica ha deciso di applicare una politica di tolleranza zero verso questo tipo di importazioni (non solo verso il tessile ma anche verso frazioni di rifiuto estranee o non idonee che venivano massicciamente immesse nel paese insieme alle materie secondarie plastiche); la presa di posizione della Cina ha sicuramente contribuito, assieme ad altri fattori, al crollo del prezzo internazionale degli abiti usati. Ma in altri paesi più "porosi", come ad esempio il Marocco, la Bolivia, il Messico e la Nigeria, è difficile immaginare che il flusso si arresterà.

Secondo l'accademico viennese Andreas Bartl e la stilista ed attivista italiana Marina Spadafora, l'esportazione di abiti usati all'Africa va evitata non solo perché inibisce lo sviluppo locale ma anche perché gli abiti lì spediti, quando arrivano a fine vita, non possono contare su servizi di recupero e smaltimento accettabili e quindi contribuiscono all'inquinamento.

Per chi sogna filiere internazionali etiche, un'altra grande gatta da pelare è costituita dalle imprese del riciclo di India e Pakistan, che oggi sono le uniche in grado di assorbire a condizioni economicamente sostenibili le quantità crescenti di rifiuti tessili non riutilizzabili e, spesso, neanche riciclabili (crescenti perché la fast fashion, basata sul principio dell'usa e getta, aumenta il volume di rifiuti ma la pessima qualità dei prodotti e dei tessuti normalmente non ne consente il recupero); in India e in Pakistan, come dimostrato da numerosi rapporti, le imprese del settore sfruttano i lavoratori, fanno ampio uso di manodopera minorile e bruciano illegalmente oppure sversano nei fiumi tutto ciò che non è loro utile. Dato che le esportazioni italiane a queste industrie sono crescenti, e prendendo atto che molto spesso chi esporta i vestiti usati lo fa a titolo gratuito e ne paga anche il trasporto, esiste il forte sospetto che tali esportazioni non siano finalizzate a riciclare o a delocalizzare il costo della suddivisione. Il Presidente della Commissione Ecomafie Vignaroli ha lanciato l'allarme, a giugno 2021, affermando che: "alcuni primi dati sembrano indicare l'emergere di un fenomeno di crescita dell'export degli abiti usati dall'Italia verso India e Pakistan. Queste esportazioni potrebbero avere anche l'obiettivo di aggirare gli alti costi di smaltimento degli indumenti non recuperabili", specificando che nelle industrie del riciclo di questi paesi "è frequente che si ricorra ai roghi per smaltire le frazioni non adatte né al riuso, né al riciclo".

Siamo di fronte a una nuova terra dei fuochi?

Con l'obbligo di fare la raccolta differenziata nel 2022 (che entro il 2025 sarà esteso a tutta Europa) e in seguito all'applicazione di Regimi di Responsabilità Estesa del Produttore, le quantità di rifiuto tessile gestite in Italia aumenteranno esponenzialmente e i problemi sopra descritti, che si sommano a gravi problemi già menzionati in altri articoli, rischiano di aggravarsi. Oggi infatti, per prassi consolidata, è sufficiente estinguere lo status formale di rifiuto di un materiale mediante i procedimenti "End of Waste" indicati dalla legge, per poi disinteressarsi del suo percorso. E il risultato è che l'Economia Circolare, osannata fino alla nausea, non si caratterizza per una reale sostenibilità sociale ed ambientale. Non esistono meccanismi in grado di garantire che ciò che oggi in Italia viene registrato come "differenziato", "recuperato" e perfettamente "circolare", o addirittura "solidale" non faccia soffrire bambini o produca devastazioni ambientali dall'altro lato del mondo. Perché l'Economia Circolare non passi alla storia come la più grande ipocrisia di questo secolo, occorre porsi le domande più crude subito, ora che siamo in una fase incipiente, e non dopo, quando gli schemi saranno già consolidati.


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