Le Elezioni UE e il futuro della circolarità
Negli ultimi anni la Commissione e il Parlamento Europei hanno promosso una riforma, chiamata Green Deal, che punta a riorganizzare l’economia dell’Unione riducendo drasticamente le emissioni serra, l’inquinamento, l’utilizzo di sostanze pericolose per l’ambiente e per la salute e l’impatto ambientale dei rifiuti. Gli strumenti prescelti sono la tracciabilità e gli standard di qualità delle filiere produttive, l’abolizione graduale dei combustili fossili, la progettazione ecocompatibile, i requisiti di prodotto, la responsabilità estesa del produttore e ambiziosi obiettivi di recupero dei rifiuti.
L’Economia Circolare è uno degli assi portanti della riforma, ed è fondata a sua volta sui pilastri del Riutilizzo e del Riciclo.
Ma in seguito alle ultime elezioni europee, si andrà a conformare un Parlamento dove il peso delle forze politiche che avevano fatto della circolarità la loro bandiera sarà molto minore.
Quali scenari si aprono? Esiste il rischio che la riforma venga bloccata dal nuovo Parlamento e che anche il Riutilizzo perda il protagonismo e la centralità che aveva ottenuto?
Lo abbiamo chiesto al patron di Leotron Alessandro Giuliani, che da molti anni segue passo passo le evoluzioni normative italiane ed europee.
Alessandro, in Europa l’Economia Circolare è a rischio?
No, non credo. Durante la campagna elettorale, le forze politiche che puntavano al consenso degli ecologisti hanno agitato la minaccia di un retromarcia sul Green Deal se avessero vinto le destre. Quando ci si prepara a un’elezione i toni si accentuano, è normale. Ma chi fa impresa, nel nostro settore così come in ogni altro settore, deve avere la capacità di analizzare i fatti in modo freddo e realistico, senza lasciarsi impressionare troppo dai discorsi elettorali. Il primo fatto di cui prendere atto è che la riforma è già impostata, ci sono direttive e regolamenti già in vigore e fare “inversioni a u” sarebbe legalmente complicato. Un’eventuale ostilità delle nuove maggioranze parlamentari e del nuovo Presidente della Commissione potrebbero manifestarsi al momento di discutere gli atti delegati che andranno a stabilire i dettagli dei regolamenti in vigore. Però l’impostazione e gli obiettivi sono già fissati, non c’è margine per grandi deragliamenti; al massimo potrebbero esserci alcuni alleggerimenti e proroghe in merito agli obblighi ambientali delle imprese. E tutto questo lo dico immaginando il peggiore scenario possibile, ossia quello di un Parlamento e di una Commissione ostili al Green Deal e all’Economia Circolare...ma di sicuro non è questo è questo lo scenario più probabile.
Qual è allora lo scenario più probabile?
Lo scenario più probabile è quello della continuità. Il vero vincitore di queste elezioni è il Partito Popolare Europeo, che riunisce gran parte dei partiti di centrodestra degli Stati Membri. Il PPE aveva un ruolo protagonista nella coalizione di maggioranza nella scorsa legislatura, tant’è che ha espresso la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Ed è stata proprio la von der Leyen a guidare con determinazione l’implementazione a tappe forzate del Green Deal, a volte entrando in conflitto con il suo stesso partito. Ora il PPE deve decidere tra diversi scenari di coalizione, ossia con chi allearsi per governare l’Unione nei prossimi 5 anni. Tra gli scenari possibili c’è la conferma dell’alleanza con i socialisti e con i verdi, ossia con i promotori più determinati del Green Deal; ma questi ultimi rispetto alla passata legislatura avranno meno peso perché hanno ottenuto meno seggi; un altro scenario possibile è lo spostamento dell’asse a destra, con l’esclusione di socialisti e verdi e l’inclusione delle forze politiche che hanno espresso maggiore scetticismo rispetto al Green Deal.
Il PPE stesso è stato accusato di frenare la riforma ecologista, laddove socialisti e verdi spingevano in avanti. Ma chi è stato dentro i percorsi sa bene che il presunto ruolo di contrasto del PPE in merito a questa riforma non era dovuto a divergenze strategiche, ma alla maggiore sensibilità di fronte alle richieste dei gruppi di interesse imprenditoriali e industriali. Le associazioni di categoria spesso, durante le concertazioni, chiedevano di creare le nuove regole con maggiore accuratezza e meno fretta, perché non cozzassero troppo con le loro realtà operative e commerciali e non ci fossero problemi di fattibilità. Non scordiamoci che sono le imprese e le industrie a doversi fare operativamente carico della riforma, cambiando il loro modo di lavorare e stare sul mercato. E il punto chiave è proprio questo....
In che senso?
Realisticamente, vi sembra plausibile che nella scorsa legislatura il Parlamento, la Commissione e il Consiglio europei abbiano portato avanti una riforma economica e produttiva così profonda senza un allineamento strategico e di fondo con i leader del mondo industriale? Ovviamente non è plausibile. Quella guidata dalla von der Leyen non era di certo una coalizione bolscevica.
E quindi?
A garantire la continuità del Green Deal saranno proprio i leader delle associazioni di categoria industriali. Gli industriali europei da un lato sono coscienti del megatrend ecologista dell’opinione pubblica, che è un megatrend importante non solo al momento del voto ma anche nelle scelte di consumo, e dall’altro lato considerano che il Green Deal sia l’unica strategia sensata dal punto di vista geoconomico. Green Deal ed Economia Circolare possono essere presentati in chiave ecologista, ma anche no. Se nella prossima coalizione di maggioranza le destre avessero un peso molto maggiore, a cambiare sarebbe lo speech che giustifica la riforma, ma non la sua sostanza. Si enfatizzerebbe di meno l’aspetto ecologista, e si sottolineerebbero maggiormente aspetti come l’autonomia strategica e la leadership economica dell’Unione. E’ normale che sia così perché chi ha votato destra e centrodestra, tendenzialmente, era più attento alla necessità di risollevare l’economia che al tema ecologico. Però la direzione strategica è già segnata, ed è trasversale. Non siamo negli Stati Uniti, dove i Repubblicani sono asserviti alle megalobbies del petrolio.
Cosa c’entra il Green Deal con la geoconomia?
Il Green Deal è soprattutto geoeconomico. Sui paesi del Global South l’Europa non ha più la stessa influenza che aveva nel XX secolo. I paesi del Global South, assieme alla Russia, sono i principali produttori di energia e materie prime, e nella maggior parte dei casi la loro visione strategica non favorisce l’Europa. Ne consegue che per l’Europa il risparmio energetico e il riciclo sono strategici per mantenere un’economia forte senza dipendere troppo da blocchi che hanno interessi diversi. Allo stesso tempo l’Europa mantiene un enorme peso nella domanda globale di prodotti; un ruolo di mercato privilegiato che non manterrà ancora per molto tempo, e che vuole sfruttare per imporre regole del gioco a essa favorevoli, spostando l’asse della competizione commerciale sugli standard ambientali e sanitari, così come sulla responsabilità sociale, ossia su ambiti dove può esprimere importanti vantaggi competitivi.
E il Riutilizzo come si incastra in questo scacchiere?
Riutilizzo, riparazione e durevolezza dei prodotti contribuiscono a mantenere risorse e ricchezza dentro i confini dell’Unione, riducendo la domanda di prodotti nuovi low cost dai paesi extraeuropei. Ma è evidente che, dal punto di vista dell’industria, il suo livello di strategicità è inferiore a quello del riciclo. Quando prevale l’ottica ambientalista, a valere è soprattutto la gerarchia dei rifiuti fissata dalla norma europea, la quale, dando priorità agli aspetti ambientali e sanitari, pone il Riutilizzo come prima opzione: ossia si dovrebbe pensare al Riciclo solo nei casi in cui il Riutilizzo non è possibile. Disgraziatamente questo criterio a volte cozza con gli interessi economici strategici, come dimostra la posizione dell’attuale Governo italiano, che si è scagliato contro il Riutilizzo obbligatorio degli imballaggi con il fine di preservare il settore del riciclo (di cui l’Italia è diventata leader). Il massimo Riutilizzo inoltre, per legge naturale del mercato, è possibile solo quando oltre che ai mercati nazionali e comunitari ci si rivolge anche alla domanda dei paesi extraeuropei più poveri; il caso più lampante è quello degli abiti usati, che per oltre il 60%, come riconosce l’Agenzia Europea dell’Ambiente, sono spediti ai canali del Riutilizzo dell’Africa Subsahariana. Dentro ai confini dell’Unione questi abiti semplicemente non troverebbero mercato: le aziende come la nostra, che si rivolgono al mercato locale, intercettano solo la “crema”, ossia i beni usati di maggiore qualità. Ora in Europa si sta discutendo se proibire tout court le esportazioni di abiti usati argomentando che in Africa l’invenduto non viene smaltito appropriatamente, e che di fronte a questa situazione il Riciclo in Europa diventa ambientalmente più conveniente; se la priorità fosse veramente ecologica, non si punterebbe ad abolire le esportazioni di Riutilizzo ma ad aiutare l’Africa a dotarsi di sistemi di gestione rifiuti adeguati; tutti gli studi di impatto ambientale mostrano infatti che il Riutilizzo, anche a fronte di lunghi viaggi in nave, ha un impatto sull’ambiente che è decine di volte minore rispetto al Riciclo. Ed abbandonare l’Africa a sé stessa sulle questioni ambientali non è affatto una buona idea: l’Ecosistema non funziona in base ai confini politici tra Stati.
Quindi il Riutilizzo rimarrà in mainstream solo se la Commissione, il Parlamento e i Governi europei, daranno priorità al tema ecologico entrando in deroga dagli interessi economici strategici? In questo caso, lo scenario non sembra molto buono...
Io sono ottimista. Produrre posti di lavoro e far funzionare l’economia reale è di per sé strategico, e il Riutilizzo impiega, solo in Italia, almeno 100.000 addetti. Nella mia esperienza il colore di un governo non è mai troppo importante al momento di affermare gli interessi del nostro settore. Spesso i migliori risultati non arrivano in funzione della retorica pubblica di chi governa, ma in seguito alla disponibilità ad ascoltare i portatori d’interesse. A volte, purtroppo, la retorica ecologista e sociale degli amministratori pubblici non si traduce in appoggio al settore del Riutilizzo ma in un sostegno clientelistico a gruppi specifici, a scapito dei provvedimenti che veramente incrementerebbero i risultati ambientali e sociali. E’ il caso dei Centri di Riuso o dei Repair Café, che spesso sono gli unici ad essere sostenuti dalle amministrazioni pubbliche locali con finanziamenti o agevolazioni; chi fa veramente il mestiere e produce autentici risultati ambientali, come i negozi dell’usato conto terzi, gli ambulanti dell’usato e le botteghe di riparazione, viene invece ignorato, e a volte addirittura vessato con imposte sproporzionate, norme sfavorevoli o burocrazie kafkiane. E’ anche il caso di certi gruppi dell’Economia Sociale, in Francia come in altri paesi europei, che ricevono denaro pubblico e dei consorzi di produttori per aprire negozi inefficienti che fanno concorrenza alle microimprese locali; è vero che impiegano soggetti deboli, e questo è bello e lodevole, ma bisognerebbe trovare formule di inclusione sociale che non tolgano il lavoro alle famiglie che si dedicano professionalmente al riutilizzo. Queste situazioni inique purtroppo vengono promosse a livello europeo, ci sono lobbisti che ci lavorano a tempo pieno.
E come se ne esce?
La verità dei fatti prima o poi emerge, e la politica in qualche misura ne prende atto. Si tratta di lavorare sul fronte del riconoscimento, mostrando i dati reali agli amministratori europei, nazionali e locali, e facendo in modo che a conoscere questi dati sia anche l’opinione pubblica. A lavorare su questo fronte in Italia ci sono Leotron, con i suoi approfondimenti settimanali, c’è l’Osservatorio del Riutilizzo e c’è Rete ONU. Sta inoltre cominciando a muovere i primi passi, a livello europeo, l’Alleanza Internazionale dei Waste Pickers, che promuove le istanze delle microimprese vulnerabili del riutilizzo. Negli ultimi quindici anni con Rete ONU abbiamo posizionato nel Parlamento italiano diverse proposte di legge e siamo intervenuti in numerosi processi legislativi, ma purtroppo l’esito non è mai stato decisivo. Qualcosa però potrebbe cambiare grazie a ISPRA, il braccio scientifico del Ministero dell’Ambiente, che ha preso pienamente coscienza del dimensionamento reale del fenomeno del Riutilizzo. ISPRA ha comunicato ufficialmente all’Europa che i negozi dell’usato conto terzi italiani, nel solo 2022, hanno permesso il Riutilizzo di 232.000 tonnellate di beni; ed è in corso un lavoro di analisi che potrebbe far emergere ancora più economia reale. E’ chiaro che di fronte a questi numeri le proposte di politica pubblica fondate sull’attuale modello di funzionamento dei Centri di Riuso perdono automaticamente ogni senso; i Centri di Riuso, sommati tra di loro, a livello nazionale, faranno a dir tanto 1000 tonnellate annue di Riutilizzo. La mia speranza è che quelli più evoluti si trasformino in impianti di preparazione per il riutilizzo, ovvero in strutture industriali che, nel quadro della normativa sui rifiuti, selezionino e avvino ai canali di seconda mano nazionali ed esteri gli enormi volumi di beni usati conferiti nei centri di raccolta comunali dei rifiuti.
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