La fast fashion raccontata nelle piattaforme digital
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La fast fashion raccontata nelle piattaforme digital

Mercoledì 02 Febbraio 2022
Eleonora Truzzi

Quali sono i contenuti che visualizzano tutti i giorni i ragazzi delle Generazioni Z e Alpha? I primi sono nati dalla metà degli anni '90, mentre i secondi dal 2010. In comune hanno una cosa: l'uso compulsivo dello smartphone. Attraverso le piattaforme digitali sulle quali trascorrono ore e ore ogni giorno fruiscono milioni di contenuti, molti di questi incentrati sulla fast fashion.

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Oggigiorno, l'età di arrivo dello smartphone si è abbassata considerevolmente rispetto a qualche decennio fa. Pare, infatti, che l'8,3% dei bambini dai 9 anni o meno ricevano uno smartphone. Si tratta quindi di individui che crescono cercando le informazioni di cui hanno bisogno prevalentemente su Internet e, in particolare, sui social media. I più utilizzati dalle Generazioni Z e Alpha sono indubbiamente Instagram e Tik Tok. Su questi canali si possono trovare video di animali domestici, di barzellette, di sfide di ballo, ma anche una enorme quantità di vestiti e accessori pubblicizzati dagli influencer, gli idoli dei giovani.

Il fenomeno si è diffuso talmente tanto da aver creato una vera e propria categoria, chiamata "Haul Video". Con questo termine, a cui fa riferimento l'hashtag #haul con 2.6 milioni di post solo su Instagram, si intende la registrazione di video che vengono poi pubblicati su Internet in cui una persona commenta di fronte al suo pubblico i suoi ultimi acquisti. Nell'ambito fashion le tendenze sono diverse, si passa dall'unboxing, alla scelta degli outfit, fino all'acquisto compulsivo su piattaforme dove i vestiti costano poco e sono stati prodotti con materiali scadenti da gruppi di lavoratori sottopagati.

Il social commerce è un vero e proprio stile di acquisto che inizia e termina sui social media dove gli utenti vedono i prodotti, ascoltano testimonianze e recensioni, per poi cliccare sui link presenti nei video stessi e acquistare i prodotti. I progressi tecnologici si stanno muovendo in questa direzione, per dare la possibilità di effettuare acquisti direttamente sul social, come avviene su Instagram e Facebook.




Visualizzare regolarmente video incentrati sulla fast fashion, sullo spacchettamento di decine di capi d'abbigliamento, sulla prova di outfit sempre diversi ogni giorno porta inconsciamente i consumatori ad acquistarne sempre di più. Lo schema che si viene a creare è particolarmente nocivo per l'ambiente. Secondo quanto riportato dal Parlamento Europeo, l'impatto ambientale della fast fashion è devastante. Per produrre una normale t-shirt sono necessari 2.700 litri di acqua, che corrispondono al fabbisogno di acqua di una persona per 2 anni e mezzo. Ma non è solo lo sfruttamento di acqua il problema, lo è anche l'inquinamento durante la produzione. Il settore dell'abbigliamento e quello delle calzature sono responsabili del 10% delle emissioni mondiali di gas serra, più di quanto producano tutti i voli internazionali e i trasporti marittimi. I processi come la tintura, la finitura e il lavaggio, portando nei mari 0,5 milioni di tonnellate di fibre sintetiche, che corrispondono al 35% delle microplastiche primarie. E, purtroppo, i problemi non finiscono con la produzione ma continuano alla fine del ciclo di vita dei capi (che si sta accorciando sempre più) quando arriva il momento di smaltirli. L'eliminazione prematura porta alla nascita di discariche abusive che inquinano il pianeta, come quella sorta nel deserto di Atacama, in Cile, dove si contano 40.000 tonnellate di stracci e abiti provenienti dal settore della fast fashion a rapida obsolescenza.

Si può fare qualcosa per spostare l'attenzione dei giovanissimi dalla fast fashion a stili d'acquisto più consapevoli? Forse sì. La perenne connessione in cui vivono oggi le Generazioni Z e Alpha, unita alla facile reperibilità di informazioni sugli avvenimenti mondiali, ha reso questi ragazzi più attenti alle tematiche ambientali perché dal benessere del pianeta dipenderà irrimediabilmente il loro futuro. L'incertezza del nuovo millennio ha buttato questi ragazzi in un clima di incertezza e insicurezza e, proprio perché affranti dall'ignoto, cercano una tematica che li accomuni, come quella ambientale. I giovani vogliono cambiare il mondo, è esattamente ciò che emerge da competizioni come il James Dyson Award e da studi di settore. Ispirati da personalità come Greta Thunberg e da altri giovani attivisti, i ragazzi si sentono responsabili verso uno sviluppo sostenibile. E non hanno mancato di dimostrarlo durante il periodo pandemico, impegnandosi in diverse attività sociali, come la distribuzione del cibo e dei medicinali.

Ma se la loro consapevolezza è tale, cosa continua a spingerli verso la fast fashion? I ragazzi sono, per definizione, in cerca di un'identità. È difficile per loro ignorare quella miriade di vestiti indossati dai loro idoli con il preciso obiettivo di guidarli verso acquisti impulsivi.




Per interrompere questo circolo vizioso sono necessarie delle azioni drastiche, che aiutino i giovani a comprendere realmente l'impatto che la moda ha sull'ambiente. In primis, è necessario far capire ai ragazzi che i video sui social media non sono altro che un nuovo modo di fare pubblicità, dalla quale l'influencer in questione ricava un guadagno personale. In secundis, i genitori devono insegnare ai propri figli a comprare meno e meglio, studiando la provenienza del prodotto e le sue componenti, prediligendo i capi a basso impatto ambientale e, meglio ancora, quelli di seconda mano. Questi ultimi, infatti, vengono sempre più valorizzati anche da noti marketplace, i quali hanno creato delle apposite sezioni per vestiti e accessori di seconda mano. Infine, è importante spostare l'attenzione dei giovani dal mondo online a quello offline, magari portandoli a visitare un negozio di second hand e mostrandogli prodotti fuori serie che possano davvero aiutarli a crearsi un'identità, molto più di quanto farebbe qualche capo di fast fashion indossato da altri milioni di ragazzi.

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