Il riutilizzo e la sfida della tracciabilità
Lo scorso 4 settembre, nel quadro del World Resource Forum, il Wuppertal Institute e l’Agenzia tedesca di cooperazione tecnica hanno organizzato una sessione interamente dedicata alla sfida tecnologica della tracciabilità dei prodotti. Di fatti, l’Unione Europea, in modo sempre più deciso, sta introducendo direttive e regolamenti che esigono una piena tracciabilità di tutti i prodotti che vengono immessi sul mercato, dagli indumenti e le batterie fino ai più comuni imballaggi di plastica, come ad esempio la confezione di un gelato. Una sfida che riguarda anche la fase di post-consumo, ossia i percorsi presi dai prodotti dopo che sono stati nelle mani del primo consumatore.
Il singolo prodotto è stato riproposto sul mercato da un operatore della seconda mano? È stato riciclato in un nuovo processo industriale? Oppure è stato smaltito in una discarica o in un inceneritore? Una volta diventato rifiuto, in quale parte del mondo è andato a finire? Le nuove tecnologie dovranno dare una risposta a tutti questi quesiti, e un numero crescente di prodotti, per legge, dovrà essere dotato di un “passaporto digitale” contenente informazioni sulla loro origine, sulle loro caratteristiche e sul loro percorso. Ciò implica che anche i canali commerciali della seconda mano, che si trovino in Italia o all’estero, saranno presto chiamati a partecipare al sistema confermando che i prodotti hanno “toccato base” presso le loro strutture.
Jochen Moesslein, ingegnere della Stanford University noto per i suoi contributi allo sviluppo di tecnologie di selezione dei rifiuti, ha presentato macchinari e software pilota che sono in grado di attribuire un codice unico a ogni singolo rifiuto, grazie all’applicazione di particelle fluorescenti tridimensionali in nastri trasportatori, che possono essere poi lette e registrate da sofisticati macchinari applicati alle seguenti fasi di trattamento del rifiuto o del bene riutilizzabile. Questo tipo di tecnologie sono state pensate anche per i vestiti usati, e spesso macchine e lavoro umano funzionano insieme, in sistemi ibridi ad alta efficienza.
Holger Berg, del Wuppertal Institute, ha illustrato la possibilità di far funzionare i passaporti digitali del prodotto a livello globale, combinando e facendo interagire diversi tipi di tecnologia, dai luoghi di produzione (ad esempio la Cina) a quelli di consumo (ad esempio Europa e Stati Uniti) per arrivare ai paesi finali dove avviene il recupero dei rifiuti o il riutilizzo dei beni (ad esempio India ed Africa). I passaporti digitali, mediante QR e altri soluzioni, daranno accesso a una grande mole di informazioni caricate sulla nube, indicanti le caratteristiche tecniche del singolo prodotto, le istruzioni per ripararlo o riciclarlo, e una traccia precisa del suo intero percorso; ogni soggetto che prende in carico il prodotto accederà a un livello diverso di informazioni: ci saranno dati per i trasportatori, dati per i distributori, dati per i consumatori, dati per le imprese che trattano il rifiuto e altri dati per i soggetti che riciclano o riutilizzano. Una prospettiva avveniristica ma in realtà molto vicina, che porrà fine alla circolazione caotica dei prodotti e dei materiali ponendo il loro percorso sotto uno stretto controllo, che riguarderà il loro intero ciclo di vita.
Henning Witts, anch’egli del Wuppertal Institute, ha sottolineato che nel mondo gran parte degli scarti destinati a riciclaggio e riutilizzo è gestita dalle economie popolari ed informali, e non certo da imprese con alto livello tecnologico. Che ruolo avranno questi attori popolari nel nuovo scenario?
Su questo dilemma i ricercatori del Wuppertal Institute hanno interrogato Pietro Luppi dell’italiana Rete ONU, associazione che riunisce gli operatori della seconda mano e che aderisce all’International Alliance of Waste Pickers. Luppi ha sottolineato che i waste pickers, ovvero gli attori vulnerabili coinvolti a vari livelli nel ciclo dei rifiuti o nel riutilizzo dei beni, raccolgono la maggior parte dei materiali riciclabili nel cosiddetto Global South (i paesi a basso reddito dell’Africa, Asia, America Latina), così come in Europa orientale, e raccolgono e rivendono la maggior parte dei materiali riutilizzabili nei paesi a reddito più alto (tra i quali c’è anche l’Italia). Oltre ai waste pickers propriamente detti, le filiere del riutilizzo sono popolate da un gran numero di microimprenditori attivi nel retail della seconda mano, come ad esempio i negozi dell’usato conto terzi (tipo Mercatopoli e Baby Bazar, per capirci) e i venditori ambulanti.
Escludere dal sistema i microimprenditori e i lavoratori informali, ponendo barriere tecnologiche, non è di certo una buona idea, considerato che oggi il sistema del riutilizzo e del riciclo, a livello mondiale, si poggia prevalentemente su di loro. Occorre piuttosto disegnare i nuovi strumenti tecnologici tenendo conto del funzionamento specifico delle loro filiere, del loro modo di lavorare, e della loro necessità di disporre di device semplici e poco costosi (i quali, grazie all’onnipresenza di internet, potranno essere linkati all’incipiente e complesso sistema globale di tracciabilità dei prodotti); la registrazione per diventare “parte” del sistema dovrà essere in qualche modo incentivata, altrimenti è difficile che i micro-operatori aderiscano; nel caso degli operatori più vulnerabili, l’incentivo potrebbe arrivare facendo coincidere il registro al sistema di tracciabilità con un facilitato accesso digitale ai servizi sociali.