Centri di Riuso: metamorfosi o morte
Pietro Luppi
Da ormai vent’anni, in Italia, i Comuni più volenterosi accolgono, a lato o all’interno dei Centri di raccolta comunali dei rifiuti urbani, strutture parallele dedite all’intercettazione dei beni riutilizzo di migliore qualità e che sarebbe un vero peccato distruggere in un inceneritore o ai fini del riciclo industriale. Tali attività, chiamate Centri di Riuso, si cimentano da sempre con problemi operativi non indifferenti che, in gran parte, derivano dal regime di “non rifiuto” che viene concesso ai beni usati da loro gestiti. Il primo di questi problemi, evidentemente, è dato dalla necessità di sostenere costi operativi aggiuntivi rispetto alle altre frazioni conferite nei centri di raccolta; i beni che non “meritano” di essere classificati come rifiuti non godono infatti per definizione dei benefici apportati da una raccolta integrata; i rifiuti inerti, quelli legnosi, quelli ferrosi, quelli ingombranti, quelli cartacei, nonché gli apparati elettrici ed elettronici, godono invece tutti quanti di un’operatività efficiente ed integrata coperta per legge dalla tariffa rifiuti. Una sola struttura di ricezione, un solo operatore ecologico.
I beni intercettati dai Centri di Riuso invece no: hanno bisogno di un loro operatore dedicato il cui costo è spalmato interamente sull’economia derivante dal recupero di quei specifici beni. L’antieconomicità di questa condizione è accentuata fino al parossismo in quei territori dove (a volte per orientamento regionale), i beni conferiti nei Centri di Riuso non possono essere venduti, e tantomeno ceduti ad operatori dell’usato. In questi casi, si suppone che i Centri di Riuso regalino ciò che intercettano e che la loro economia e operatività stia in piedi grazie al volontariato e/o ai soldi elargiti da Comuni e aziende di igiene urbana. Ma i beni, regalati o venduti che siano, sono molto difficili da piazzare perché esiste un problema di sincronizzazione tra offerta e domanda. Infatti, come è normale, l’input dei centri di riuso è eterogeneo e gli spazi, concepiti per un ideale circuito a metri zero, non dispongono di magazzini e sistemi di selezione adeguati per creare assortimenti che realmente possano essere assorbiti dal consumatore finale (indipendentemente dal prezzo a cui le merci vengono offerte; di fatti, per i centri di riuso spesso è difficile addirittura piazzare le merci in regalo).
È proprio osservando questo limite con sguardo tecnico che si intuiscono le ragioni dell’esistenza di un settore di operatori dell’usato che impiega circa 100.000 persone; il valore che questi professionisti aggregano alla merce usata consiste, in buona parte, nel creare un raccordo operativo e commerciale tra l’aleatorietà dell’input e le esigenze del consumatore. Nei Centri di Riuso, per forza di cose, questo tipo di valore aggregato non esiste o è molto limitato. Di fronte a un’insostenibilità evidente e strutturale, i Centri di Riuso tendono ad assestarsi su standard operativi e formali che sono da tutti i punti di vista sotto soglia. Secondo il Centro di Ricerca Rifiuti Zero circa il 60% dei Centri di Riuso “dona” i beni a fronte di contropartite economiche. Tale formula risulta particolarmente ambigua, e volendo essere intellettualmente onesti va considerata per quello che realmente è: commercio al nero. Il “lavoro volontario”, parimenti, è altamente sospettabile di non essere altra cosa che lavoro sommerso. Ma anche in un regime di informalità sostanziale la perdita economica che caratterizza i Centri di Riuso è talmente ineluttabile da indurre i gestori a ridurre gli orari di apertura a momenti specifici della settimana, ben al di sotto del livello di disponibilità al cliente su cui si poggia qualsiasi normale attività di vendita. La necessità dei potenziali clienti di annotarsi in agenda gli orari di apertura del Centro di Riuso riduce ulteriormente la capacità di distribuzione sprofondando ancor di più i centri di riuso nel loro circolo vizioso.
Il fenomeno dei Centri di Riuso però va valutato nella sua globalità, e non solo in base a indicatori di efficacia tecnica. Fino a un recente passato i Centri di Riuso, nonostante tutti i loro limiti, erano necessari. Senza i Centri di Riuso le aziende di igiene urbana, i cittadini e le istituzioni si sarebbero completamente scordati che i Centri di raccolta comunali ricevono grandi quantità di prodotti che sono perfettamente riutilizzabili, e che destinarli a distruzione è uno spreco inaccettabile. I Centri di Riuso hanno tenuto alta la bandiera del riuso dimostrando che può generare valore ambientale e sociale, e l’escamotage normativo alla base della loro esistenza era ampiamente giustificabile data l’assurda assenza, nel quadro normativo dei rifiuti, di regole che indicassero chiaramente come trattare un rifiuto riutilizzabile per avviarlo ai canali della seconda mano (una possibilità che, ai sensi del DM del 5 febbraio 1998, era chiaramente prescritta solamente per gli indumenti usati).
Ora però questa situazione di anomalia normativa è definitivamente superata. Le modifiche al testo unico ambientale apportate dal Dlgs 116/20 sono molto chiare: la preparazione per il riutilizzo è inclusa apertamente nella gamma delle operazioni di recupero e può essere applicata a partire dai codici autorizzativi esistenti (e, ad uso dei funzionari più esigenti e puntigliosi, è sufficiente che il Ministero offra qualche specifica in più sulle procedure da adottare).
Non esiste quindi più una barriera normativa che impedisca alla Preparazione per il Riutilizzo (ossia al trattamento dei rifiuti finalizzato a riutilizzo) di essere avviato e di entrare a regime, in base a sistemi su scala industriale e procedure di tracciabilità e trattamento che, al pari di ogni flusso di rifiuti da recuperare, prevengano il più possibile il rischio di impatti sanitari ed ambientali.
Deposito temporaneo, trasporto autorizzato, primo stoccaggio, trasporto autorizzato, procedura End of Waste e distribuzione ai canali di seconda mano. Cristallino come l’acqua. L’evoluzione naturale del sistema verso filiere di recupero strutturate potrebbe però essere ostacolata da un fattore deformante, ossia da una pioggia di denaro pubblico finalizzata a far sopravvivere e proliferare i Centri di Riuso nonostante la loro insostenibilità inerente (la Strategia Nazionale per l’Economia Circolare promette 600 milioni di euro da fondi PNRR, e altri fondi potrebbero arrivare con il concetto di “prevenzione”). Di fatto, le debolezze proprie di questo schema verrebbero non solo perpetuate nei Comuni dove i Centri di Riuso già esistono, ma estese a un gran numero di altri Comuni. A lato della maggioranza dei Centri di raccolta comunali sorgerebbero delle “falle” in grado di dirottare dal flusso tracciabile dei rifiuti, in modo sostanzialmente arbritrario, tutte le frazioni “meritevoli” di non essere considerate rifiuti, ossia le più ricche e valorizzabili, lasciando alla Preparazione per il Riutilizzo solo la frazione povera (situazione che, ovviamente, condannerebbe gli impianti di Preparazione per il Riutilizzo a lavorare in perdita). Chiunque lavori nel settore del recupero dei rifiuti sa bene che scremare a monte le qualità migliori danneggia la sostenibilità economica delle filiere, rendendo difficile, se non impossibile, puntare al massimo recupero.
E se i Centri di Riuso perpetuassero i loro tipici schemi di “gratuità” unita a commercio e lavoro al nero (finora tollerati perché “a fin di bene”) potrebbero far sorgere mostri peggiori di quelli nati e prosperati attorno ai traffici di abiti usati (dove si è infiltrata la criminalità organizzata). I beni riutilizzabili dei centri di raccolta italiani, infatti ammontano almeno a 600.000 tonnellate annue per tre miliardi di euro di valore (come riportato da Occhio del Riciclone e Rete ONU). Un tesoro che potrebbe facilmente generare sviluppo locale, posti di lavoro, ricchezza e risultati ambientali, ma anche risvegliare appetiti criminali. Il riutilizzo, l’opzione in assoluto più sostenibile non solo a livello ambientale ma anche economico, nello scenario della separazione dei flussi diventerebbe un’ingiustificata fonte di sperpero di denaro. Uno sperpero che poi, nel concreto, le famiglie si troverebbero a dover sostenere. In tale scenario, infatti, ci si troverebbe dinnanzi a:
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Centri di Riuso in perdita economica e sostenuti dalle tariffe rifiuti imposte alle utenze domestiche;
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Impianti di Preparazione per il Riutilizzo, ugualmente in perdita a causa della sottrazione della “crema” da parte dei primi; gli impianti di Preparazione per il Riutilizzo, in prospettiva, si sosterranno grazie ai corrispettivi ambientali riconosciuti dalle industrie nel quadro dei regimi di responsabilità estesa del produttore; ma il denaro per generare questi corrispettivi uscirà anch’esso dalle tasche delle famiglie, perché aggregato con voce specifica di scontrino al prezzo di vendita dei prodotti.
Perché questo non accada occorre puntare tutto sulla Preparazione per il Riutilizzo, mantenendo unita la qualità del flusso unita in nome della sostenibilità economica ed ambientale. I Centri di Riuso, che come un baco da seta si trovano di fronte a un indispensabile metamorfosi, continueranno ad essere pionieri e campioni del riutilizzo solo se impiegheranno tutto il loro know how e le loro energie alla costruzione di sistemi di Preparazione per il Riutilizzo efficaci e orientati dalla ricerca del massimo vantaggio ambientale, sociale e di sviluppo locale.