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Centri di riuso: il punto della situazione

Giovedì 15 Dicembre 2022

Alessandro Giuliani

Il 14 dicembre l’associazione italiana degli operatori del riutilizzo, Rete ONU, ha realizzato un webinar sui Centri di Riuso: una prima iniziativa di informazione e dibattito che confluirà presto in una presa di posizione unitaria della categoria su questo tema. Come Portavoce di Rete ONU ho considerato utile inquadrare il fenomeno a partire dalle sue origini, soffermandomi poi sugli aspetti normativi e su questioni relative allo sviluppo della filiera del riutilizzo. Dopo di me sono intervenuti Renato Conca, rappresentante del comparto Cooperative Sociali di Rete ONU, comparto che include gestori di Centri di Riuso, e Pietro Luppi, Direttore del Comitato Scientifico dell’Associazione.

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I primi Centri di Riuso nascono circa vent’anni fa, in alcuni Comuni del nord e del centro Italia, come escamotage per riutilizzare e reimmettere in circolazione i beni durevoli riutilizzabili conferiti come rifiuti nei centri di raccolta comunali. Nei Centri di Riuso, che normalmente sono posti in adiacenza o all’interno dei centri di raccolta comunali, ciò che si considera riutilizzabile può essere intercettato e gestito come se non fosse un rifiuto. Questo tipo di struttura è normalmente gestita da soggetti non profit e rappresenta una fonte d’ingresso economico per l’associazionismo locale. Spesso vengono ceduti arredi e altri beni a famiglie vulnerabili, case famiglia, ecc…

Da un censimento realizzato dal Centro di Ricerca Rifiuti Zero risulta che il 23% dei Centri di Riuso cede i beni usati gratuitamente, il 36% chiede in contropartita denaro che viene registrato come “donazione”, il 20% circa tiene insieme le due formule. Il restante 10% circa prevede modalità con contributi economici. Il 56% dei Centri di Riuso, quindi, ha come prassi una vendita di fatto priva di registro. Questa situazione presenta, ovviamente, un forte profilo di criticità che va superato poiché tecnicamente si tratta di commercio al nero.

Perché applicare questo tipo di formule invece di soluzioni più strutturate, come avviene con il recupero degli altri rifiuti? Perché i Centri di Riuso non alimentano le filiere del riutilizzo?

La filiera per assorbire i beni riutilizzabili intercettati nei centri di raccolta ci sarebbe, ed è assolutamente consolidata. Il settore impiega 100.000 addetti in Italia e reimmette annualmente in circolazione circa 500.000 tonnellate di beni. I player sono di vario tipo: negozi dell’Usato Conto Terzi, Negozi tradizionali, mercati dell’usato, fiere, negozi specialistici. E oltre ai canali nazionali ci sono quelli esteri: in Asia, Africa ed Europa orientale esistono filiere strutturate che già oggi assorbono stock di beni usati provenienti dall’Europa Occidentale e Centrale.

Per comprendere l’impostazione informale dei Centri di Riuso occorre innanzitutto occorre tenere conto di un fatto importante: i Centri di Riuso sono nati e si sono sviluppati in assenza di un quadro normativo sui rifiuti che offrisse appigli chiari per implementare procedure di end of waste finalizzate al riutilizzo. La dimensione informale e solidaristica che tutt’oggi caratterizza i Centri di Riuso ricorda le raccolte di abiti usati curate dalle Caritas parrocchiali fino alla fine degli anni ’90, che poi sono state in gran parte sostituite dalla cooperazione sociale incaricata di svolgere i servizi di raccolta differenziata del rifiuto tessile. Gli indumenti usati hanno avuto una linea di sviluppo diversa da quella di tutte le altre frazioni riutilizzabili per una ragione molto semplice: nel Decreto Ministeriale del 5 febbraio 1998, la possibilità di reimpiego di un bene durevole è prevista solamente per i rifiuti tessili, che grazie a questa possibilità sono intercettati in tutta Italia in specifiche raccolte differenziate (obbligatorie dal 2022), per poi essere trattati come rifiuti in impianti autorizzati. Circa il 60% dei rifiuti tessili trattati in questi impianti viene avviato a canali di seconda mano esteri e nazionali.

Il settore ha accolto con grande aspettativa la Direttiva Europa 98/2008 (ratificata dall’Italia con il dlgs 205/10) la quale, finalmente, fissava chiare definizioni per il Riutilizzo (messa in circolazione di beni usati che non sono rifiuti, rientrante in un concetto di Prevenzione) e Preparazione per il Riutilizzo (trattamento di rifiuti finalizzato al riutilizzo). La 98/2008 rafforza e chiarisce la gerarchia dei rifiuti, ponendo il Riutilizzo e la Preparazione per il Riutilizzo in cima alle priorità.

Di conseguenza, il Dlgs 49/2014, contestualmente all’introduzione di uno specifico regime di responsabilità estesa del produttore, fissa la preparazione per il riutilizzo in cima alle priorità di recupero dei RAEE. Oltre agli indumenti usati, dal 2014 si aggiunge quindi una nuova importante frazione che è possibile preparare per il riutilizzo in base a procedure di trattamento facili da autorizzare. La Preparazione per il Riutilizzo dei RAEE però in Italia è ancora incipiente ed è portata avanti da pochi pionieri. Il sistema, evidentemente, ancora non offre ai produttori driver d’interesse e vincoli normativi sufficienti per promuoverla come si deve.

La grande svolta arriva grazie al Dlgs 116/2020, dove la Preparazione per il Riutilizzo entra a fra parte a pieno titolo della definizione di Recupero. Pertanto, pur in assenza di Decreti Ministeriali che illustrino con chiarezza le procedure, è già possibile autorizzare senza particolari fraintendimenti impianti di trattamento dei rifiuti che siano finalizzati alla preparazione per il riutilizzo di qualsiasi rifiuto non pericoloso. In realtà, il fatto che la Preparazione per il Riutilizzo fosse un’operazione di Recupero era già implicito nella norma precedente, come dimostra il Progetto europeo PRISCA, che nel 2012 ha fatto autorizzare e mettere a regime un primo impianto di Preparazione per il Riutilizzo in Italia. Prisca ha dimostrato che integrando le attività pre-esistenti di un Centro di Riuso a operazioni di Preparazione per il Riutilizzo, è possibile portare a una scala maggiore e più efficiente operazioni che altrimenti funzionano in modo scoordinato. Punto di efficienza principale: registrare come rifiuti I beni durevoli in ingresso nei centri di raccolta per integrare I costi di intercettazione.




Partendo da queste premesse, negli ultimi anni su questo tema è stato possibile osservare lo sviluppo di due visioni di evoluzione normativa che sono parallele e non del tutto conciliabili.

La prima visione, che potremmo definire “integrata”, ha trovato impulso soprattutto dall’iniziativa di advocacy di Rete ONU. Fanno parte di questa visione la legge 13 del 2009, con le sue indicazioni sulla “valorizzazione ecologica dei mercati dell’usato”, il Piano Nazionale Prevenzione pubblicato dal Ministero dell’Ambiente nel 2013, che indica il settore dell’usato come punto di riferimento per lo sviluppo di riutilizzo e preparazione per il riutilizzo, e le 4 proposte di legge (1065 e altre) incardinate nella scorsa legislatura per il riordino generale del settore del settore dell’usato.

La seconda visione, che definiamo del “non rifiuto”, si basa su una concezione di deroga permanente dalla condizione di rifiuto dei beni durevoli immediatamente riutilizzabili che vengono conferiti nei centri di raccolta comunali. Secondo questa logica, alla “preparazione per il riutilizzo” dovrebbe essere destinato solo il flusso di beni bisognosi di riparazione o ricondizionamento. Figlia di questa concezione è la legge 221/2015 (collegato ambientale), che rende possibile implementare nei Centri di raccolta comunali dei rifiuti urbani attività di libero scambio o intercettazione di beni durevoli che non sono considerati rifiuti.




La Strategia sull’Economia Circolare pubblicata dal Ministero della Transizione Ecologica, tenta una sintesi tra queste due visioni parallele, ma lo fa partendo da premesse totalmente errate. Parla infatti di un settore del riutilizzo basato soprattutto su “attività non profit che svolgono attività di intermediazione tra privati”, facendo ovviamente una gran confusione, dato che il non profit, seppur lodevole, rappresenta solo una microscopica frazione del settore e di certo non fa attività di intermediazione (a differenza dei circa 3000 negozi dell’usato conto terzi, che però non sono non profit). Renato Conca, rappresentante del comparto cooperative di Rete ONU, nel webinar si è chiesto da dove il Ministero abbia potuto prendere dati del genere. Nella Strategia sull’Economia Circolare il Ministero afferma che non essendo il settore strutturato e all’altezza delle sfide dell’economia circolare, sono i Comuni a dover prendere l’iniziativa per costruire, a partire dai Centri di Riuso, filiere commerciali in grado di generare posti di lavoro e risultati ambientali. E vengono quindi annunciati, a questo fine, 600 milioni di euro stanziati da ora al 2026. Renato Conca ha sottolineato che il Ministero, con questo approccio, non solo mostra una mancanza di conoscenza del tema, ma anche una grave carenza strategica. Non viene infatti considerata minimamente la reale strutturazione del settore e delle sue filiere. Secondo Conca, una visione integrata è necessaria non solo in quanto agli sbocchi di filiera, ma anche in ambito territoriale (sinergia con le aziende di igiene urbana, ecc..) e di compatibilità normativa. Occorre superare, secondo Conca, il riuso sporadico e basato sul volontarismo e transitare a un concetto di servizio. Durante il webinar Conca ha mostrato gli spazi di uno dei Centri di Riuso rappresentati da Rete ONU specificando che molte delle merci esposte in questo tipo di strutture sono di valore esiguo, al contrario di quanto ha affermato il Ministero, che nella Strategia dell’Economia Circolare parla in modo generalizzante di una “selettività” delle merci trattate dagli operatori del riutilizzo, deducendo in questo modo che gli operatori non sarebbero in grado di assorbire il fabbisogno di beni riutilizzabili. Pietro Luppi, Direttore del Comitato Scientifico di Rete ONU, ha invece posto enfasi sull’opportunità di far confluire l’esperienza dei Centri di Riuso nell’ambito della Preparazione per il Riutilizzo, ossia in filiere controllate, caratterizzate da tutti i vincoli ambientali e di tracciabilità del rifiuto. Secondo Luppi le procedure di Preparazione per il Riutilizzo dovrebbero però essere semplici e sostenibili. Classificare come rifiuti i beni intercettati nei centri di raccolta è molto importante, perché la creazione di flussi paralleli originati dagli snodi logistici del rifiuto, infatti, rischia non solo di creare filiere scarsamente controllate che potrebbero suscitare appetiti da parte di soggetti torbidi, ma anche di creare, a causa dell’inefficienza del sistema, costi aggiuntivi che poi ricadranno sulle famiglie (ecotasse legale alla responsabilità del produttore e/o rincari nelle tariffe rifiuti).

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