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Beneficenza e abiti usati, il mito da sfatare

Mercoledì 22 Marzo 2023

Redazionale

Molti italiani continuano a credere che conferendo i loro abiti usati in un contenitore stradale o donandoli in una parrocchia daranno da vestire a un bisognoso che non è in grado di comprarsi i vestiti. Ma in realtà, come ha spiegato l’operatore Caritas Alessandro Ruggieri, citato nel libro “La Rivincita dell’Usato”, la realtà è diversa.

beneficenza-abiti-usati

Oggi le priorità dei poveri sono altre. “Il bisogno di indumenti da parte degli indigenti è sovra-rappresentato nell’opinione pubblica”, ha evidenziato Ruggieri. “Nel contesto italiano gli ignudi da vestire ormai sono veramente pochi, un abito su una bancarella dell’usato costa quanto un caffè e può durare anni. Il bisogno riguarda prevalentemente i senzatetto, che per fortuna sono pochi e si concentrano nei grandi centri urbani; per queste persone solo alcune tipologie di indumento sono effettivamente utili e c’è soprattutto necessita di biancheria intima nuova, coperte, sacchi a pelo, rifugi, pasti caldi, docce calde. La popolazione a basso reddito, più numerosa dei senzatetto, ha bisogno soprattutto di soldi per pagare affitto e bollette e di orientamento per accedere ai servizi sociali o per l’inserimento lavorativo.”

Gli abiti raccolti da Caritas e dagli altri enti solidali, quindi, vengono in gran prevalenza venduti a imprenditori del settore per ottenere i soldi necessari a soddisfare le vere necessita dei poveri.

“A volte” si lamenta Alessandro “i mass media cavalcano le erronee concezioni dell’opinione pubblica per fare servizi dai toni scandalistici del tipo ‘i vestiti destinati ai poveri in realtà sono un business’, contribuendo a una generica stigmatizzazione della commercializzazione del vestiario usato, ma il principale motivo per cui gran parte degli indumenti donati non va ai poveri è che il bisogno della popolazione indigente non ha una scala sufficiente ad assorbire gli enormi volumi raccolti”.




I volumi raccolti dalle parrocchie o mediante i cassonetti, effettivamente, sono talmente grandi da superare non solo il bisogno degli indigenti ma l’intera domanda nazionale di abiti usati. Le quantità assorbite dagli ambulanti nostrani rappresentano infatti una quota minoritaria dei flussi che confluiscono agli impianti di selezione: oltre il 90% di quanto viene raccolto viene esportato in Africa, Europa orientale e Asia, e di conseguenza oltre il 90% del volume d’affari delle imprese del settore (circa 143 milioni annui a fronte di 158 milioni, secondo le stime del 2019) è riconducibile a transazioni con l’estero.




Su questi argomenti l’Agenzia Ambientale Europea (EEA) ha messo di recente la lente d’ingrandimento (vedere il nostro articolo: https://leotron.com/europa-fa-il-punto-sulle-esportazioni-di-abiti-usati), sottolineando come l’esistenza del frainteso sulla beneficenza è ancora forte non solo in Italia ma in tutta Europa, e fornendo dati, numeri e valutazioni sulle esportazioni degli abiti a canali commerciali extraeuropei.

Karina Bolin, rappresentante del comparto tessile di Rete ONU, ha commentato lo studio europeo chiarendo che “le raccolte differenziate tessili sono servizi pubblici di raccolta rifiuti, che implicano standard di qualità, svuotamenti costanti dei contenitori, obbligo di ritirare tutti gli scarti tessili e non solo gli abiti pronti per essere reindossati. Tutto questo implica costi operativi, che vengono sostenuti grazie alla vendita sui mercati dell’usato nazionali e internazionali di quella quota che effettivamente è riutilizzabile. Il resto viene inviato a riciclo o a smaltimento e per gli operatori della raccolta e del recupero rappresenta un costo. Esistono ancora operatori solidali che generano impatto sociale a partire dagli abiti usati, ma lo fanno impiegando soggetti svantaggiati nelle operazioni di raccolta oppure destinando a progetti solidali una parte dei ricavi delle vendite”.

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