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Passato e futuro del riuso solidale (1)

Mercoledì 13 Marzo 2024

Redazionale

Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?».  Rispondeva: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».

Vangelo secondo Luca 3, 10.11

 

Nella cultura occidentale donare gli abiti usati è una tradizione dalle radici molto antiche. A prescrivere la condivisione dei propri abiti in eccedenza con le persone vulnerabili è Gesù stesso, che è tutt’oggi il più importante influencer morale della nostra cultura. Ma l’esortazione evangelica al riutilizzo solidale è in realtà la parafrasi di un concetto biblico più remoto. Nel Vecchio Testamento Tobi, che è un uomo di Dio, già cieco e sentendo di essere vicino alla morte, offre al figlio Tobia una serie di orientamenti per la sua vita. Tra questi ce n’è uno molto concreto: “dà il tuo pane a chi ha fame e fa’ parte dei tuoi vestiti agli ignudi. Dà in elemosina quanto ti sopravanza e il tuo occhio non guardi con malevolenza, quando fai l’elemosina” (Tb 4,16). La scena si ambienta a Ninive, antica capitale dell’Assiria, ai tempi della diaspora. Gli ebrei in esilio, oppressi e maltrattati, individuano le basi spirituali, morali e valoriali della tradizione giudeo-cristiana. La storia di Tobi e Tobia insegna che a chi pratica la beneficenza Dio concede la salute. In Italia è ancora viva la leggenda di San Martino, che rimasto scoperto per avere donato il proprio mantello a un mendicante viene premiato da Dio con alcuni giorni di calore fuori stagione (la cosiddetta “Estate di San Martino”, che cade all’inizio di novembre).

riuso-solidale

Fino alla fine degli anni ‘90 quando una famiglia italiana aveva dei vestiti in esubero, dopo aver verificato l’eventuale bisogno di amici e parenti, li metteva in grandi bustoni e li consegnava alle parrocchie. Poi il sistema è cambiato. Oggi le parrocchie continuano a intercettare volumi significativi di abiti usati (diverse decine di migliaia di tonnellate l’anno, secondo la percezione degli operatori del settore), ma non sono più la principale opzione. Il principale detonatore del cambiamento è stata la necessità dei Comuni, sull’onda delle politiche ambientali europee, nazionali e regionali, di implementare raccolte differenziate della frazione tessile. Ma fare una raccolta differenziata non è come organizzare una raccolta di donazioni! Bisogna infatti garantire la massima intercettazione possibile assorbendo anche gli abiti e prodotti tessili che non sono idonei per il riutilizzo, adottare frequenze di raccolta ben specifiche e rispettare tutti i vincoli legati alla gestione del rifiuto (trasporti e stoccaggi autorizzati, trattamento presso impianti R3, formulari, ecc..). Non è più un’iniziativa volontaria, si tratta di un servizio pubblico. Per realizzarlo come si deve occorre pagare autisti, manager e personale amministrativo. La soluzione politica adottata da molti Comuni per “togliere” il flusso alle parrocchie fu chiedere alle parrocchie stesse, o direttamente ai Vescovi, di segnalare, o creare ex novo, delle cooperative o aziende in grado di svolgere il servizio. Il mondo Caritas aveva un grande punto di vantaggio: era già in relazione con gli operatori del recupero del tessile. Da parecchio tempo, infatti, gli abiti ricevuti in donazione dalle parrocchie venivano in gran parte rivenduti per finanziare progetti solidali di maggiore priorità rispetto alla mera consegna di abiti agli indigenti. Le filiere erano già in piedi e si trattò solo di adeguare il sistema. In molti casi, furono le stesse imprese compratrici ad aiutare le cooperative del circuito Caritas a strutturarsi ed entrare a regime con il servizio di raccolta, fornendo a queste ultime gli asset necessari (in primis i contenitori stradali) e garantendo loro accordi di lungo termine per l’acquisto a prezzo fisso della totalità del raccolto . In diverse città, anche grandi, la raccolta stradale dei rifiuti tessili e quella degli abiti donati nelle parrocchie iniziò a funzionare con logistiche integrate e facendo affidamento su canali di recupero unitari. E grazie alla nuova dimensione industriale del sistema le Caritas locali, in molti casi, cominciarono a ricevere significative somme di denaro dagli operatori della raccolta oppure direttamente dalle imprese compratrici, a volte sotto forma di libere elargizioni e altre volte come royalty per concedere l’utilizzo del logo sui contenitori.

(continua)

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