Milano Fashion Week, la moda diseducativa
Il mese di ottobre si apre con il richiamo irresistibile della moda, non a caso viene chiamato il Fashion Month, proprio perché in questo mese si concentrano le Fashion Week più famose del mondo. In l’Italia culmina nella Milano Fashion Week, un evento che, oltre a celebrare l'estetica e lo stile, solleva questioni cruciali legate all'impatto ambientale e sociale. Quindi non solo un trampolino per nuove tendenze, ma anche un palcoscenico su cui emergono le contraddizioni del settore sotto una miriade di punti di vista.
Inquinamento e mobilità
La Milano Fashion Week è senza dubbio un evento di portata globale, attirando fashion influencer, stilisti, acquirenti e appassionati da tutto il mondo. Tuttavia, dietro l'effervescente stravaganza di sfilate e presentazioni, sorge un paradosso cruciale che merita un'analisi approfondita: il contributo significativo all'inquinamento atmosferico e ambientale causato dai mezzi di trasporto impiegati per raggiungere l'evento.
La magnitudine della Milano Fashion Week richiede una massiccia migrazione di persone e merci. Designer, modelle, giornalisti e acquirenti convergono in una sorta di esodo della moda, trasportando non solo i propri abiti e accessori, ma anche i valori e l'immagine di un'industria che spesso trascura l'impatto ambientale delle sue pratiche.
Il trasporto aereo, in particolare, è uno degli elementi chiave che alimenta l'inquinamento atmosferico associato alla settimana della moda. Migliaia di voli verso e da Milano comportano un rilascio significativo di emissioni di gas serra, contribuendo al cambiamento climatico. La realtà crudele è che l'estetica e il lusso dell'evento sono alimentati in parte da motori che accelerano il degrado ambientale.
Secondo i dati dell’Ufficio Studi di Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza, erano attesi 130 mila arrivi, 45 mila dall’estero e 57 mila italiani. Un movimento di persone decisamente importante.
Questo scenario mette a dura prova gli sforzi di rendere la moda più sostenibile. Mentre alcuni brand possono impegnarsi a utilizzare materiali eco-friendly nelle loro collezioni, l'impatto ambientale legato al trasporto per partecipare agli eventi come la Milano Fashion Week può facilmente vanificare questi progressi. Ciò pone una seria sfida sul come bilanciare la globalizzazione del settore con l'urgenza di ridurre l'impatto ambientale.
Un modello diseducativo
Arrivando all’evento vero e proprio, una conseguenza della Milano Fashion Week è l’incentivo verso i consumatori a cercare costantemente nuovi prodotti. Non si tratta solamente della creazione di canoni estetici irraggiungibili, promossi durante questa settimana di moda. L'idealizzazione di modelli di bellezza spesso lontani dalla realtà ha effetti duraturi sulla società ed è certamente una questione che merita un approfondimento a parte, poiché alimenta insicurezze e influenza i consumatori a cercare una perfezione difficile da raggiungere, anche dopo numerosi cambi di outfit.
La problematica sulla quale vogliamo focalizzarci in questa sede va ricercata in una formula chimica. Il cervello umano è progettato per rispondere positivamente alle nuove esperienze e alle ricompense. Quando si sperimenta qualcosa di nuovo, il cervello rilascia dopamina, un neurotrasmettitore associato alle sensazioni di piacere e ricompensa. Questo processo crea una sorta di "ricompensa cerebrale" che incoraggia il comportamento di ricerca di nuovi stimoli.
Inoltre, il cervello è in grado di adattarsi rapidamente a stimoli regolari e quotidiani: questo processo è noto come adattamento sensoriale. Quando ci esponiamo a qualcosa di nuovo, il nostro cervello reagisce in modo più vigoroso. Tuttavia, nel tempo, la risposta diminuisce. Questo può spingere le persone a cercare costantemente nuovi stimoli per mantenere livelli elevati di eccitazione o interesse.
Unitamente a questo, durante l'evoluzione, la curiosità e la ricerca di nuovi ambienti o risorse erano spesso vantaggiose per la sopravvivenza. Individui con una spiccata curiosità avevano maggiori probabilità di scoprire nuovi cibi, rifugi o risorse utili per la sopravvivenza. Ciò ha contribuito a plasmare un'attrazione innata verso l'innovazione e la novità.
Nel contesto delle società moderne, questo bisogno naturale di stimoli nuovi viene sfruttato dalla pubblicità e dal marketing. L'industria della moda, in questo caso, crea costantemente nuovi stili, tendenze e prodotti per soddisfare il desiderio umano di novità. La percezione di "essere alla moda" è spesso associata a un senso di appartenenza e successo sociale, incoraggiando così il consumo continuo.
Infine, la società contemporanea spesso promuove l'idea che il successo e la felicità siano legati all'acquisto di nuovi beni. Questa pressione sociale può spingere le persone a cercare continuamente nuovi stimoli attraverso il consumo per soddisfare aspettative esterne e interne di successo e realizzazione.
Consumismo e Fast Fashion
Tutto questo è terreno fertile per la fast fashion. Le nuove collezioni degli stilisti di alta moda spesso promuovono capi alquanto indossabili che, tuttavia, hanno dei costi molto elevati. Quindi i marchi di fast fashion imitano rapidamente i design delle passerelle, rendendoli accessibili a un pubblico più ampio a prezzi convenienti.
Siamo tutti ben consci del fatto che la produzione in massa e il consumo incessante di abbigliamento poco sostenibile hanno un impatto significativo sulle risorse dell’ambiente. L'uso intensivo di materiali, consumo idrico ed energetico nel processo di produzione, insieme allo smaltimento spesso inadeguato dei capi vecchi, contribuisce all'accumulo di rifiuti e all'esaurimento delle risorse naturali.
Per i meccanismi visti prima, i consumatori vengono spinti ad acquistare continuamente per rimanere al passo con le ultime tendenze. O, più semplicemente, perché i capi di fast fashion hanno una durata molto breve. Lo stesso Shein ha dichiarato che la vita media di un suo capo è di 1 anno.
Una sostenibilità ambigua
In realtà, alcuni dei brand di alta moda si sono resi conto di contribuire nel rendere questo settore uno dei più inquinanti al mondo. Sulle passerelle abbiamo visto nomi come Alabama Muse, un Made in Italy che vuole produrre pellicce nel rispetto degli animali, o Cormio, altro brand italiano che sostiene di utilizzare solo materiali artigianali e di porre attenzione alla filiera di produzione. L'ascesa dei brand "zero waste" e "sostenibili" durante la Milano Fashion Week è una risposta positiva alla crescente consapevolezza ambientale nell'industria della moda.
I brand "zero waste" spesso si distinguono per la loro attenzione al riciclo e all'upcycling. Progetti artigianali che riutilizzano materiali esistenti possono ridurre l'impatto ambientale associato alla produzione di nuovi tessuti e capi d'abbigliamento. In questo caso, è cruciale valutare la reale entità del riciclo e dell'upcycling in quanto alcune iniziative potrebbero avere una portata limitata.
Il termine "sostenibile", invece, può essere ambiguo e varia notevolmente nelle sue interpretazioni. L'uso di materiali poco eco-friendly, come il poliestere e la pelle vegana in poliuretano, nelle collezioni "sostenibili" solleva domande sulla coerenza, sull’etica e sull'effettivo impegno a ridurre l'impatto ambientale. Questi materiali possono richiedere risorse significative e processi produttivi che contribuiscono all'inquinamento e all'esaurimento delle risorse.
La vera sostenibilità necessita di una trasparenza nella catena di approvvigionamento. È importante che i brand divulghino informazioni dettagliate sui materiali utilizzati, i processi di produzione e le pratiche di gestione dei rifiuti. Una chiara comunicazione e rendicontazione sulla sostenibilità può contribuire a costruire la fiducia dei consumatori e a dimostrare un impegno autentico.
Anche perché sono sempre di più i consumatori che chiedono alle aziende di fare attenzione alla sostenibilità. In un sondaggio congiunto di McKinsey e NielsenIQ, il 78% dei consumatori ha dichiarato che lo stile di vita è importante e molti di loro pagherebbero di più per acquistare prodotti sostenibili.
Cosa accade all’invenduto?
Una sovrapproduzione genera automaticamente dell’invenduto. In un articolo apparso su The Wall Street Journal, Stefano Ricci ha dichiarato che Burberry nel 2018 ha bruciato beni invenduti del valore di 38 milioni di dollari.
Questa pratica ha addirittura portato la Francia a emanare una legge che rende illegale distruggere l’invenduto o i capi che venivano restituiti. Emmanuel Macron ha voluto dare un esempio mondiale per cercare di combattere le conseguenze del consumismo sfrenato ed è stato seguito da Belgio, Germania e, molto presto, dall’intera Unione Europea (una direttiva comunitaria che impedisca la distruzione dei resi e degli invenduti è nella fase finale di discussione).
Tuttavia, anche se i capi non vengono distrutti dalle stesse case produttrici, la sovrapproduzione porta a una saturazione. Il ricambio dei capi è molto più rapido e porta a situazioni come quella che sta vivendo il deserto di Atacama, in Cile, nel quale sono arrivate quasi sessantamila tonnellate di abiti riutilizzabili dall’estero.
La Milano Fashion Week, come anche quelle di Parigi, Londra e New York, si presenta come un palcoscenico di riflessione critica. L'urgenza di una transizione verso pratiche di economia circolare diventa evidente, mettendo in discussione il futuro della moda e la responsabilità di tutti gli attori coinvolti nel plasmare l'industria.
Se la Fashion Week incentiva un modello diseducativo, al contrario sono da premiare le settimane incentrate sul second hand come la Sustainable Fashion Week, il Second Hand September o la #NoNewClothes, che incoraggiano il riutilizzo e la riduzione dell'impatto ambientale legato alla produzione di abbigliamento.