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La Preparazione per il Riutilizzo entra in vigore-finalmente

Mercoledì 20 Settembre 2023

Redazionale

Dopo oltre dodici anni di attesa il Ministero all’Ambiente (oggi denominato “Ministero all’Ambiente e alla Sicurezza Energetica) ha finalmente prodotto il suo Decreto sulla Preparazione per il Riutilizzo. “600.000 tonnellate annue di rifiuti, che sono costituiti da beni in buone condizioni, avranno finalmente la possibilità di essere reimmesse in circolazione nelle filiere della seconda mano, senza essere più distrutte negli impianti di riciclo o di smaltimento”, commenta a caldo il Direttore dell’Osservatorio del Riutilizzo Pietro Luppi.

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Il Decreto 10 luglio 2023, n. 119 del MASE è entrato in vigore lo scorso 16 settembre e determina le “condizioni per l’esercizio delle preparazioni per il riutilizzo in forma semplificata, ai sensi dell’articolo 214-ter del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”. Cosa significa?

Come gli addetti del settore sanno molto bene, la Preparazione per il Riutilizzo è, secondo la definizione di legge, un trattamento di recupero che riguarda i rifiuti, e pertanto è diverso dal Riutilizzo, che coinvolge oggetti che non sono rifiuti.

Il nuovo decreto definisce quindi:

  • le modalità operative ed i requisiti minimi di qualificazione degli operatori necessari per l’esercizio di attività di Preparazione per il Riutilizzo dei rifiuti in procedura semplificata
  • le dotazioni tecniche e strumentali necessarie per tale attività,
  • le quantità massime impiegabili, la provenienza, i tipi e le caratteristiche dei rifiuti
  • le specifiche condizioni in base alle quali i prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono sottoposti ad operazioni di Preparazione per il Riutilizzo.

Le operazioni di Preparazione per il Riutilizzo riguardano rifiuti idonei ad essere preparati per il loro reimpiego mediante operazioni di controllo, pulizia, smontaggio e riparazione che garantiscono l’ottenimento di prodotti o componenti di prodotti conformi al modello originario. Il prodotto ottenuto dalle succitate operazioni viene etichettato con l’indicazione: «Prodotto preparato per il riutilizzo».

Il regolamento recato dal decreto definisce:

  • L’esercizio delle operazioni di Preparazione per il Riutilizzo in forma semplificata l’artico definisce modalità e procedure di avvio dell’attività.
  • I requisiti soggettivi del gestore per l’esercizio delle attività di Preparazione per il Riutilizzo.
  • Le dotazioni tecniche dei centri di Preparazione per il Riutilizzo
  • Alcune norme specifiche per la Preparazione per il Riutilizzo dei RAEE
  • Le caratteristiche e dotazioni tecniche di un centro di Preparazione per il Riutilizzo
  • Le modalità di comunicazione di inizio di attività di Preparazione per il Riutilizzo




La lunga battaglia dell’Osservatorio del Riutilizzo e degli Operatori dell’Usato

“Il Dlgs 205/10” spiega Luppi “vincolava il Ministero dell’Ambiente a pubblicare entro sei mesi un decreto sulla Preparazione per il Riutilizzo, ed effettivamente è dal 2011 che l’Osservatorio del Riutilizzo, così come gli altri soggetti titolati ad opinare sul riutilizzo, si trovano coinvolti ciclicamente in dialoghi con il Ministero, che tutte le volte annunciava trionfalmente che la pubblicazione del decreto era imminente. Gli operatori del riutilizzo, in particolare, hanno chiesto a gran voce e a più riprese che la situazione si sbloccasse: perché in tutta evidenza è assurdo che centinaia di migliaia di tonnellate di beni in perfetto stato, ogni anno, vengano distrutti invece che essere verificati e poi riutilizzati, come peraltro stabilisce la norma europea fin dal 2008.

Ai sensi di questa norma europea aprire impianti di Preparazione per il Riutilizzo era già legalmente possibile, ma gli enti preposti non rilasciavano le autorizzazioni perché non esisteva una procedura esplicitata dal Ministero. A contribuire al ritardo, probabilmente, è stata la divergenza di opinioni in merito alla Preparazione per il Riutilizzo, e il Ministero, come accaduto in molti altri ambiti, non aveva il coraggio di imporre una propria sintesi. C’erano essenzialmente due scuole di pensiero: la prima chiedeva che per tutte le merceologie fosse applicato lo stesso criterio già applicato dalla fine degli anni ’90 con i rifiuti tessili, ossia l’istituzione di raccolte differenziate di rifiuti dove tutte le qualità, includendo le migliori, fossero trasportate e trattate in regimi controllati, in beneficio della tracciabilità e della legalità della filiera, per ridurre la probabilità di delitti ambientali e anche per garantire la sostenibilità economica del recupero; di fatti, è il mix tra qualità superiori e qualità inferiori a far raggiungere il punto di equilibrio ai recuperatori, che in questo modo sono in grado di acquistare i rifiuti tessili dai raccoglitori i quali, a loro volta, grazie a questo denaro non si trovano nella necessità di chiedere agli enti locali denaro per svolgere il servizio di raccolta differenziata.

 La seconda scuola di pensiero mirava invece, in tutta evidenza, a proteggere l’esistenza dei Centri di Riuso posizionati presso i Centri di Raccolta Comunali con l’obiettivo di dirottare le merci riusabili nelle filiere del non rifiuto; un’ escamotage nata una ventina d’anni fa a causa dell’assurda impossibilità burocratico-legale di compiere un End of Waste che fosse finalizzato al riutilizzo; ma questa scuola di pensiero, pur di fronte a uno scenario di superamento dell’impasse formale, puntava a proteggere l’istituzione dei Centri di Riuso, chiedendo che gli impianti di Preparazione per il Riutilizzo fossero relegati al mero assorbimento dei beni di peggiore qualità, ossia quelli bisognosi di interventi di riparazione per poter essere riutilizzati, lasciando invece ai Centri di Riuso la prerogativa di intercettare la crema posizionandosi presso il principale snodo logistico della raccolta dei rifiuti riutilizzabili, che sono appunto i Centri di Raccolta comunali”.




“E’ una visione mediocre e dannosa” prosegue Luppi “contro la quale l’Osservatorio del Riutilizzo di Occhio del Riciclone combatte da anni. In questi anni l’Osservatorio e gli operatori dell’usato hanno contribuito al dibattito portando argomentazioni tecniche, operative ed economiche di spessore, compiendo dimostrazioni assieme al mondo dell’università, e analizzando in profondità ogni sfaccettatura della questione, includendo la parte sociale.

La conclusione, molto semplice, è che a fronte di opzioni meglio strutturate di Preparazione per il Riutilizzo i Centri di Riuso così come oggi sono concepiti smettono di avere senso, dal punto di vista ambientale, sociale e della creazione di posti di lavoro. Il nostro suggerimento agli attuali gestori dei Centri di Riuso è sempre stato lo stesso: adattatevi al nuovo sistema, che è meglio strutturato e organizzato, e sfruttate le vostre competenze per offrire proposte valide e posizionarvi bene nel nuovo scenario. Alcuni dei gestori stanno esattamente su questa linea, e ci stavano anche prima che glielo proponessimo. Ma purtroppo, in altri casi, assistiamo a una cieca difesa del vecchio schema; una difesa che si gioca tutta quanta sul piano della politica e degli slogan e per nulla sul piano dell’argomentazione tecnica”.

“Nel decreto entrato in vigore questo settembre” conclude Luppi “riparazione, smontaggio e ricondizionamento non sono operazioni obbligatorie; se un bene è già in buono stato è sufficiente controllarlo e, in alcuni casi, igienizzarlo. Questo dà agli impianti la possibilità tecnico-normativa di gestire tutte le qualità e non solo quelle in cattivo stato. Si tratta di un’ottima notizia.

 Ma se a prevalere è stato il buon senso lo capiremo solo al momento di leggere gli annunciati Decreti sul Riutilizzo. Esiste infatti il rischio che, nonostante il riutilizzo in Italia abbia 100.000 addetti, a essere promosso dalla politica ambientale siano solo iniziative comunali, come i Centri di Riuso o altro, che oltre a non poter offrire risultati rilevanti in campo ambientale, sociale ed occupazionale, potrebbero anche interferire con il buon funzionamento degli impianti di Preparazione per il Riutilizzo (i quali, per essere economicamente sostenibili, non possono subire scremature a monte delle migliori qualità)”.

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