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RD tessile in crisi, ma usato in buona salute

Venerdì 04 Luglio 2025

Alessandro Giuliani

Il settore della preparazione per il riutilizzo degli indumenti usati è sull’orlo del collasso. E, di conseguenza, a collassare potrebbero essere le raccolte differenziate dei rifiuti tessili (per capirci, i cassonetti gialli), visto che è proprio grazie alla preparazione per il riutilizzo che esse ottengono i fondi per sostenersi.

Alcuni tra i più grandi raccoglitori europei, come SOEX, Texaid Germania, e WMH hanno presentato istanza di fallimento, e il Segretariato Generale del Consiglio Europeo, lo scorso 10 giugno, ha invitato formalmente gli Stati Membri a farsi carico di un’emergenza che, riguardando un servizio di raccolta differenziata, è a tutti gli effetti un’emergenza ambientale.

Eppure, il settore degli abiti usati di seconda mano è in buona salute sia in Italia che all’estero, e nonostante abbia i suoi fisiologici alti e bassi non dà segnali di crisi.

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Cosa sta succedendo? Come è possibile che chi raccoglie e seleziona gli abiti usati dei contenitori stradali viva difficoltà tanto gravi, se il mercato finale di questi abiti usati invece funziona bene?

Della crisi della preparazione per il riutilizzo dei tessili si è parlato lo scorso 24 giugno a Roma, presso la sede nazionale di Confcommercio, in un interessante convegno organizzato da Assorecuperi (associazione dei recuperatori di rifiuti alla quale aderisce anche Rete ONU, la rete nazionale degli operatori dell’usato). A commentare il fenomeno e a ragionare sulle possibili vie d’uscita dalla crisi c’era una schiera di stakeholder: da Mara Chilosi e Pietro Luppi, del comitato scientifico dell’associazione, fino a Bernardo Piccioli Fioroni di Utilitalia, passando per Massimo Torti di Federmoda, Francesco Marini del distretto tessile Toscana Nord e Mauro Chezzi di Confindustria Moda. C’era anche il noto giurista Leonardo Salvemini. A rappresentare politica e istituzioni c’erano l’Onorevole Erica Mazzetti, che fa parte della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati, e il Ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, in video; nessuno dei due, purtroppo, per i soliti motivi di “fretta istituzionale”, si è soffermato ad ascoltare gli interventi del convegno. Ma, al di là dei simboli, andremo a valutare le loro azioni concrete.

Al termine degli interventi di scaletta hanno preso la parola diversi esponenti e rappresentanti del settore, tra i quali c’ero anche io, ed è nato un proficuo dibattito del quale riporto qui i contenuti chiave.

La rottura dell'equilibrio

Gli operatori che raccolgono gli abiti nei contenitori stradali offrono un servizio di raccolta differenziata ai Comuni: ma fino a oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, per offrire questo servizio non sono stati pagati perché avevano il diritto di autofinanziarsi rivendendo quanto raccolto agli impianti di selezione autorizzati con codice R3); questi ultimi erano poi in grado di rivendere con profitto la frazione riutilizzabile a canali della seconda mano italiani ed esteri (con una netta predominanza dei canali esteri: in parte in Europa orientale e in Nordafrica ma, soprattutto, nell’Africa Subsahariana). Negli ultimi dieci anni, facendo affidamento su questa situazione, i Comuni, con le loro aziende di igiene urbana, hanno moltiplicato le gare al massimo rialzo, concedendo il diritto a raccogliere all’operatore che offriva più soldi.

Oggi però questo punto di equilibrio economico non esiste più, e durante il convegno i portavoce del settore dei raccoglitori hanno chiarito che non riusciranno a garantire la continuità del servizio dopo l’estate. Eliminare i contributi economici ai Comuni e alle aziende di igiene urbana non sarebbe una misura sufficiente, dato che, attualmente, il sistema non si sostiene più, e non si sostiene neanche nei casi in cui il contributo non è applicato.

I costi operativi della raccolta (gli autisti che svuotano i contenitori, i furgoni, la benzina, il primo stoccaggio) si aggirano attorno ai 30 centesimi per ogni kg raccolto, ma il prezzo di mercato di questo rifiuto “originale”, ossia non selezionato, si è assestato nell’ultimo anno tra i 10 e i 25 centesimi al kg.

Per una molteplicità di ragioni gli acquirenti dell’”originale”, che sono gli impianti di selezione sopra citati, non riescono a pagare di più, nonostante i mercati africani, dove finisce la maggior parte della merce, siano pienissimi di clienti.




Le ragioni della crisi

Nella maggior parte dei fenomeni economici contemporanei, se si fa un’analisi di fondo su prospettive e tendenze, si arriva sempre allo stesso punto: la Cina. E il settore del recupero dei rifiuti tessili ed abiti usati non è di certo l’eccezione.

La prima ragione della crisi delle differenziate tessili è lo tsunami di fast-fashion proveniente dal gigante asiatico, che tra il 2023 e il 2024 è quasi raddoppiato. Massimo Torti di Federmoda, parlando a nome dei dettaglianti di abbigliamento italiani, ha riportato che i pacchi di abbigliamento a basso costo che raggiungono l’Europa sono arrivati alla cifra record di 12 milioni al giorno.

A risentirne in modo diretto non sono solo i produttori europei e i negozi del tessile abbigliamento, che hanno perso enormi fette di mercato, ma anche gli operatori della filiera dei rifiuti tessili. Gli abiti fast fashion, di fatti, diventano rapidamente rifiuti, perché reggono poche lavatrici prima di deteriorarsi, e perché il loro grande volume induce i consumatori a svuotare più rapidamente gli armadi; a raccogliere questi rifiuti, che a causa della scarsa qualità delle loro fibre sono difficili da riutilizzare e riciclare, sono i raccoglitori che svuotano i contenitori gialli, e poi a farsene carico sono gli impianti di selezione, che dopo aver identificato nella cernita i rifiuti che non sono recuperabili devono avviarli a smaltimento sostenendo un alto costo. Ciò di per sé diminuisce sensibilmente l’incidenza della frazione riutilizzabile e rivendibile rispetto all’equilibrio generale dei loro costi, riducendo in modo automatico il valore di mercato dell’”originale”. In poche parole, il fast fashion ha sovraccaricato il sistema fino a mandarlo in tilt.

Ma, come ha sottolineato l’esponente dei selezionatori Joseph Valletti, i problemi non finiscono qui. Il mercato delle ballette di abiti usati è internazionale, e pertanto fa riferimento a prezzi che sono dettati dal mercato mondiale. E indovinate chi è oggi a determinare i prezzi?

Sono i cinesi, che negli ultimi dieci anni hanno iniziato a fare le loro raccolte differenziate di abiti usati, inondando il mercato africano di ballette che arrivano a costare il 50% o 60% in meno di quelle provenienti dall’Europa. Ciò obbliga i selezionatori europei ed italiani a far scendere i prezzi il più possibile nonostante i loro costi operativi siano aumentati, e a diminuire di conseguenza il prezzo riconosciuto ai raccoglitori. L’Europa stessa, a causa dell’obbligatorietà della raccolta differenziata scattata in tutta l’Unione lo scorso primo gennaio, sta aumentando la quantità di “originale” posto sul mercato contribuendo ulteriormente all’inflazione delle ballette sul mercato internazionale.

Nel rifiuto tessile “originale” raccolto nei cassonetti non ci sono solo abiti riutilizzabili e frazioni da smaltire. C’è anche una grande quantità di materiali (circa il 35%) che possono essere riciclati industrialmente. Questi ultimi, fino a oggi, venivano venduti a cifre molto basse a canali di riciclo indiani e pakistani, che però nell’ultimo anno si sono gradualmente chiusi, con il risultato che oggi i selezionatori, se vogliono riciclare, devono pagare.

Le soluzioni

Durante il convegno a Roma Mauro Chezzi di Confindustria Moda ha sottolineato che “in presenza di un regime di Responsabilità Estesa del Produttore del tessile, i produttori avrebbero potuto contribuire, sia finanziariamente che organizzativamente, per sostenere gli operatori della raccolta e della selezione in questo momento difficile”.

È quindi automatico chiedersi: come è possibile che la Responsabilità Estesa del Produttore del tessile in Italia ancora non esista, nonostante nel nostro paese l’obbligatorietà della differenziata del tessile sia stata anticipata di tre anni rispetto alla scadenza europea e siano i produttori stessi a spingere, da tempo, perché venga applicata? Quando si introduce un obbligo di raccolta differenziata la responsabilità estesa del produttore, di prassi, viene immediatamente applicata, perché è uno strumento organizzativo e finanziario che è indispensabile per garantire la continuità del servizio “nella buona e nella cattiva sorte”.

Rete ONU, e Assorecuperi, le associazioni alle quali facciamo riferimento, partecipano fin dal febbraio del 2023 alle consultazioni organizzate dal Ministero dell’Ambiente per stabilire linee e contenuti di un Decreto italiano sulla Responsabilità Estesa del Produttore. Il Ministero aveva promesso di emettere questo Decreto già nella primavera del 2023…poi si sono susseguiti i mesi, e addirittura gli anni, senza che, almeno apparentemente, fosse mossa foglia. Di fatti i Comuni, molto influenti nel tavolo di concertazione, guadagnavano soldi dall’attuale sistema e non erano molto propensi a cambiare lo status quo. A pagare le conseguenze di questa paralisi sono stati quei produttori che, immaginandosi un iter con tempistica normale, fin dal 2022 hanno cominciato a far operare i loro consorzi di filiera preparandosi al nuovo scenario, e si sono trovati a doverne sostenere i costi di struttura in assenza di un Decreto che pagasse loro il contributo ambientale. Ma a soffrire sono stati soprattutto gli operatori della raccolta e recupero, abbandonati a loro stessi nel bel mezzo di una tempesta di mercato.

Il Ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, intervenuto in video, ha riferito che la bozza di decreto ministeriale sull’EPR tessile è stata riaggiornata, che le fasi di consultazione con gli stakeholder si reputano concluse, e che il percorso è in dirittura d’arrivo.

Gli operatori, dal canto loro, hanno fatto notare che, anche nel caso in cui il Decreto uscisse entro l’estate, ci sarebbe comunque un tempo tecnico di almeno un anno prima di poter ricevere soldi dai consorzi dei produttori. Come faranno a sopravvivere durante questo periodo?

L’unica strada, hanno affermato, è quella di ricevere contributi provvisori ed emergenziali, dei quali si facciano carico lo Stato, o gli enti locali, o le aziende di igiene urbana, nel periodo che rimane da qui all’arrivo dei contributi della Responsabilità Estesa del Produttore.




Puntiamo sull'Italia?

In ultima analisi i soggetti che tengono in piedi tutto il sistema sono i dettaglianti e i consumatori finali della seconda mano. Sono loro a garantire il riutilizzo degli abiti usati, e fino ad oggi sono stati loro a fornire il denaro che, viaggiando a ritroso, ha sostenuto l’intera filiera dei rifiuti tessili.

Questi dettaglianti e consumatori operano in Europa orientale, in Nordafrica, nell’Africa Subsahariana e, non dimentichiamocelo, anche in Italia. Nel nostro paese ad assorbire queste merci sono soprattutto gli operatori ambulanti, che troviamo agli angoli di ogni strada, con i loro banchi e i cartellini colorati che indicano i prezzi forfait.

Il mercato italiano tende ad assorbire solo le migliori qualità, questo è vero, e queste ultime non superano il 10% della frazione riutilizzabile dell’“originale” raccolto nei contenitori stradali. Cosa ci impedisce però di rafforzare i canali nostrani, risolvendo alla radice parte del problema strutturale che mette in crisi raccoglitori e recuperatori?

E cosa impedisce al sistema di coinvolgere anche i negozi italiani dell’usato conto terzi, che riutilizzano quasi 15.000 tonnellate annue di indumenti (45 milioni di pezzi) e che da quest’anno godono di un loro codice ATECO che li rende ben riconoscibili ed identificabili?

Nel 2024 il Governo francese si è posto l’obiettivo di “nazionalizzare” il riutilizzo degli abiti usati delle raccolte differenziate, arrivando a un 15% entro il 2027. L’Olanda, analogamente, si è data l’obiettivo di un 15% di riutilizzo nazionale entro il 2030. Perché non possiamo farlo anche noi?

Tra i punti che ho voluto segnalare a Roma, durante il convegno di Assorecuperi, c’è quello dell’IVA applicata impropriamente all’usato, così come ai prodotti che risultano dalla preparazione per il riutilizzo (che, per rigidità formale, risultano essere “prodotti nuovi”). Pagare l’imposta sul valore aggiunto su prodotti che già sono stati tassati quando erano nuovi non è legittimo di per sé, e oltretutto l’applicazione piena dell’IVA su questi prodotti diminuisce i margini economici a disposizione delle filiere dell’usato, rendendo più difficile il raggiungimento degli obiettivi ambientali.

Su questo fronte il momento potrebbe essere propizio per ottenere risultati: a livello europeo esiste una finestra per ridiscutere i regimi IVA, e si chiama Clean Industrial Deal. Una proposta normativa per escludere la preparazione per il riutilizzo da questa imposta è già stata messa sul tavolo: occorre spingere perché l’agevolazione possa essere applicata in modo diretto anche ai dettaglianti della seconda mano.

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