Zero Waste
Il concetto di “Zero Waste” (“rifiuti zero”) è stato introdotto per la prima volta negli anni ’80 dal Professore di Berkeley Daniel Knapp, e a partire dagli anni ’90 è diventato nome e programma di un vasto movimento che a partire dagli Stati Uniti e dall’Australia si è diffuso in tutto il globo. Oggi i movimenti che si riconoscono nel concetto Zero Waste sono riuniti in unica grande rete mondiale chiamata GAIA. Le richieste di questo importante movimento ai governi e alle amministrazioni locali partono da una premessa chiara: i rifiuti non dovrebbero esistere, perché il loro impatto sull’ambiente non è sostenibile. Riduzione, Riutilizzo, Riparazione, Riciclo e Recupero dovrebbero essere al centro delle politiche pubbliche e del comportamento dei cittadini, in base a una gerarchia di priorità basata sul minor impatto ambientale e sanitario. Il movimento Zero Waste ha avuto un ruolo chiave nel convincere un gran numero di Governi ad adottare ufficialmente questa gerarchia. L’Unione Europea, in particolare, per motivi ecologici e anche geoeconomici, si sta muovendo convintamente in questa direzione nell’ambito del Green Deal e della transizione all’Economia Circolare. L’obiettivo dell’Europa è ridurre gradualmente lo smaltimento dei rifiuti fino alla sua estinzione (per “smaltimento”, secondo la norma, si intende la restituzione dei rifiuti all’ambiente seppellendoli nelle discariche, oppure la loro distruzione mediante incenerimento). Perché i rifiuti vengano ridotti, e il loro riutilizzo, riciclo e recupero sia massimizzato, l’Europea punta anche sulla progettazione eco-compatibile del prodotto (o “Ecodesign”), ossia su criteri di progettazione che garantiscano che i prodotti abbiano maggiore durevolezza, contengano materiale riciclato e siano compatibili con riutilizzo, riciclo e altre forme di recupero.
“Il concetto rifiuti zero a volte si presta a fraintesi” commenta il Direttore dell’Osservatorio del Riutilizzo Pietro Luppi “perché a volte il riutilizzo e il riciclo sono massimizzati proprio grazie a una gestione dei rifiuti che tiene conto delle priorità ambientali; nel caso dei rifiuti tessili, per esempio, il trattamento e selezione dei rifiuti a norma di legge consente di destinare al riutilizzo oltre il 50% del raccolto, e di avviare a riciclo la maggior parte di ciò che rimane. Ma a volte il concetto di riduzione del rifiuto viene usato per affermare che un oggetto o materiale di cui un cittadino si disfa non dovrebbe, a prescindere, essere raccolto come rifiuto, asserendo per principio la preferibilità di altre strade che sono estranee alla normativa dei rifiuti; queste alternative però in alcuni casi sono meno tracciate e controllate, e diventa impossibile prevenire i delitti ambientali; inoltre, quando le frazioni non sono pure, dirottarle dalla dimensione industriale degli impianti di trattamento rifiuti riduce le economie di scala e la redditività della selezione, rendendo meno sostenibile il riutilizzo e il recupero; l’ovvio risultato è che si fanno meno riutilizzo e meno recupero”.
“In questo modo, tristemente, l’importante battaglia per l’estinzione dello smaltimento degenera in uno sterile capriccio semantico” aggiunge il fondatore e patron di Leotron Alessandro Giuliani. “Un capriccio dove l’aspetto più importante non è più la quantità di rifiuto effettivamente ridotto o recuperato, ma l’adozione di formule che impediscano che allo scarto venga attribuita l’etichetta infamante di rifiuto…ma senza tener conto che a volte, in assenza di tale etichetta formale, non esistono le condizioni perché i materiali post-consumo siano gestiti nel modo più ecologico e sicuro; in altri casi, come quello dei negozi dell’usato conto terzi, la strada del non rifiuto è sicura perché tutto quanto è tracciato da software gestionali. Per scegliere una strada piuttosto che un’altra non bisognerebbe basarsi sulle parole, ma sull’analisi concreta delle filiere e dei loro risultati ecologici”.
Secondo Alessandro Giuliani esiste un solo modo per superare questa impasse semantica. “Per prevenire questo tipo di fraintesi, che a volte hanno effetti devastanti sulla politica pubblica locale, e per fare un importante passo in avanti a livello culturale, è fondamentale che nella norma europea il termine waste/rifiuto sia sostituito in favore di altre terminologie che non alludano semanticamente all’espulsione, alla distruzione, alla devastazione e all’abbandono, ossia a concetti che dovrebbero essere associati solo allo smaltimento, e non alle altre forme di gestire quello che oggi viene chiamato rifiuto”.